sabato, maggio 14, 2011

John Fante.

Da qualche anno ho il vizio di riproporre una vecchia esortazione alla lettura, tramandatami da un saggio e raro amico. E' figlia di quelle serate da bar,quelle fredde però. A volte può capitare in certe serate che una Molinari e una vecchia storiella intrisa di leggenda ti si infilino sotto il cappotto per tirarti un po' su. E capita che da queste serate salti fuori, così all'improvviso, un consiglio per un libro, un film o una canzone. Se poi questo consiglio non è imposto, ma lasciato lì ad ardere sino alla strada barcollante del ritorno, allora funziona. E la maggior parte delle volte ti cambia la vita. "Lascia perdere tutto quello che stai leggendo!" Esordiva così, facendo piazza pulita di tutto il resto. "Domani alzati presto, fatti la barba e metti una camicia pulita. Poi vai in libreria e senza esitare chiedi quel libro. Già che ci sei fattelo impacchettare, così quando torni a casa sei sicuro di esserti fatto un regalo." L'autore si chiama John, di cognome Fante e il libro, anzi i libri,sono "Aspetta primavera, Bandini" e "La confraternita dell'uva".
La scrittura di John Fante è così forte, che dietro ogni parola si sente il suono della macchina da scrivere. Si percepisce la scarica di parole che tesse il profilo dei suoi alter-ego letterari, ossia Arturo Bandini e Henry Molise. John Fante, di sangue abruzzese. Lo scrittore che meglio ha saputo raccontare una generazione che si confrontava con le proprie radici e la volontà di distaccarsene. Una generazione che parlava americano fuori casa e italiano dentro. In un personale percorso narrativo, ho voluto vedere in questi due romanzi  l’alfa e l’omega della sua movimentata vita familiare. Nonostante appartengano a due filoni diversi, essi completano quella che è tutta la vita ed il rapporto dello scrittore con i  genitori e le sue radici. Come ha scritto lui stesso, in "Aspetta primavera, Bandini" c'è tutto quello che poi sarebbe stato ripreso in seguito, condensato in un'opera prima sbalorditiva. Cosa dire di Arturo Bandini, di suo padre Svevo, della madre che sgrana rosari e prepara la stufa per le gelide notti del Colorado? La sensazione impressionante è che John Fante abbia esattamente colto la peculiare attitudine del carattere italiano nei suoi scritti. La letterattura americana, abituata ad uno stile veloce e spezzato, si è rivelata la melodia perfetta per una vita fatta di tante parole e tanti gesti messi assieme. Ciò che unisce il piccolo Arturo Bandini all' Henry Molise adulto della “Confraternita” è il difficile rapporto con il padre e l'eterno conflitto che lo lega a lui: un elastico di affetti e rancori che si inseguono per tutta la vita. Un primo particolare che balza all'occhio è il grande divario temporale che separa queste due opere, come se davvero la vita andasse di pari passo alla letteratura. "Aspetta Primavera" uscì nel 1938 e "La confraternita" nel 1977. Eppure la grande maestria di Fante non si è persa col tempo, ma è divenuta, forse incosapevolmente, una roccia solida, uno di quei muri che suo padre indicava chiedendo: "Che cosa non vedi?" Vivisezionare l'opera di Fante non rende merito alla sua grazia compositiva e alla scelta degli ingredienti che mescola come fa sua madre nella cucina di vapori e crocifissi. Quello che vorrei descrivere è una sensazione, quella che più mi ha colpito e mi ha fatto innamorare. E la sensazione è che Fante ci abbia preso in pieno. Quel carattere dell'emigrante italiano, il suo orgoglio, le sue contraddizioni e quel calore primitivo a cui tornare sempre e sempre per poi scappare. Una fucìna calda di affetti dove il perdono viene consumato in casa, tra le mura domestiche, così come i litigi e le lacrime. Svevo e Nick Molise  sono figure di padri riconoscibili, veri e genuini. Il primo è un fascio di nervi scattanti ed operativi, il secondo più incline alla tenerezza ma ancora pieno di rabbia e voglia di riscatto. Non distribuisce carezze ed ogni tanto molla qualche ceffone. Ripone poche aspettative sui figli, se non una lieve speranza che lo possano seguire in cantiere. Ha la barba ispida e pungente e un odore amaro di sigaro biascicato e vino. Ma in fondo a questa crosta, a questa corazza salata, c'è una storia di ostacoli, di coraggio e rimpianti. C'è la storia di uomini che la terra, la patria lontana, ha vomitato fuori, a miglia e miglia di distanza per cercare fortuna e stabilità. Sono uomini e padri che escono fuori la sera per stare coi compari, ma che senza le loro donne non sanno dove sbattere il grugno. Le donne, già. Per John Fante la moglie Joyce sarà la grande compagna di una vita, unita a lui come il pane abbrustolito col pomodoro. E, come per lei, lo scrittore parla con grande affetto di sua madre. In questi due romanzi è descritta come una compagna paziente, una moglie ed una madre carica d'affetto per i figli scalmanati che accudisce e rincuora. Suo marito la rimprovera spesso per questa educazione molle, colpevolizzandola di averli viziati ed educati senza infondere il rispetto.  Ma se non ci fosse lei a perdonarlo per i suoi peccati, pregando e ripulendolo dalle sbronze, sarebbe solo un vecchio triste e solo. Lei è il cuscino buono del letto, quello che profuma.

Come se fosse una specie di Salgari, Fante ci descrive l'italianità senza la cornice del Bel Paese e allo stesso tempo ci racconta la sua America, quella di tanti che come lui hanno cercato l'oro sepolto nella libertà dei grandi spazi. Tra “Aspetta primavera” e “La confraternita”, troviamo un ragazzo e poi un uomo che debbono sudare più degli altri, lavarsi da quel passato che non gli appartiene e faticare per un posto nella società contando solo sulle proprie forze. Fante ci ha  prepotentemente trascinati in quel grande calderone di ricordi e affetti che irrimediabilmente ha preso volti e voci di persone delle nostre vite, delle nostre cucine. Quelle dove i dolori della vita si curano con le patate novelle e il cosciotto d’agnello.

Alessio MacFlynn



mercoledì, maggio 11, 2011

Intelletto italiano: un nobile clochard.


"Solo me ne vo per la città...passo tra la gente che non sa...che non conosce il mio dolore" recita un classico della canzone italiana, e mi viene subito da pensare a tutte le menti eccelse che, puntualmente, quando non sufficientemente intrepide da cercare fortuna su altre sponde, soffrono dell'oblio alle quali la nostra becera società le condanna.
Anche a costo di mancare di modestia, diciamocelo: l'Italia, come poche altre nazioni al mondo, ha dato i natali ad alcune delle menti più eccezionali della storia. Partendo da un Leonardo, passando per un Marconi, fino ad approdare ad una Montalcini (l'articolo indeterminativo rende giustizia agli innumerevoli esempi illustri non citati), la nostra storia è stata costellata di astri rilucenti.
Continua ad esserlo, ma con una sottilissima differenza:NON CE NE ACCORGIAMO!!!
O facciamo finta di nulla...
Ed è proprio la totale inospitalità di cui soffre il nostro capitale umano che porta gran belle teste nostrane a spremersi le meningi altrove.
Volendo curarsi solo delle più note, se ne potrebbero elencare a centinaia, ma sono molte di più quelle alle quali la diaspora si è presentata come ineluttabile destino (io stesso ne ho un esempio in famiglia).
Mi è venuta in mente questa triste constatazione dopo la lettura di un articolo su Wired di maggio.
Il suddetto articolo, la cui lettura consiglio vivamente, è intitolato: Carlo Ratti - Genio in trasferta.
"Carlo sognava una città dove le biciclette producono energia, i robot si mangiano il petrolio e le case non hanno più paura degli tsunami. Poi ha aperto gli occhi e ha trasformato il sogno in realtà".
Gran bella storia, se solo non fosse che, come troppo spesso accade, quel sogno in realtà si chiama "dream. American dream". Insomma... un ennesimo Thione!!!
La ragione di un mio così profondo sconforto nell'apprendere tali notizie non ha solo le motivazioni sentimentali che ci si potrebbero aspettare da un italiano che non riesce ad andare fiero del proprio paese. Ad un attento calcolo economico, infatti, il prendere coscienza su quanto pesi sui bilanci dello Stato, e quindi sui cittadini, l'educazione di un individuo che, potenzialmente, darà gratuitamente i suoi frutti ad un altro Paese, tramuta lo sconforto in totale disperazione.
Poiché un articolo che tratti temi politico-economici non ha credibilità se non snocciola cifre, citerò una pubblicazione OCSE (OECD education at a glance 2010) che darà dimensione della situazione.
Secondo tale studio, i cui dati, sebbene riferiti al 2007/2008, possono essere comunque indicativi della portata del fenomeno, esclusa l'istruzione universitaria, la formazione di un alunno ,dalle elementari alle superiori, costa in media 100.903 dollari (ndr. 71005,9456 euro).
Tralasciando il fatto in sé di come tale importo, superiore alla media OCSE, non sia bilanciato da performance migliori, visto che gli studenti italiani non spiccano nelle valutazioni tramite test PISA, sfido a non trovare l'inefficienza sottesa al dato di fatto che, dopo aver speso quest'importo, è piuttosto probabile che non se ne trarrà nulla indietro.
E questo discorso varrebbe anche se l'istruzione costasse molto meno, semplicemente perché non risponde ad economicità l' intraprendere investimenti che potenzialmente non hanno ritorni!!!
A mio sommesso parere, il problema principale sta nella miopia di elettori ed eletti.
Secondo la Teoria del ciclo politico-economico di Nordhaus, illustre economista, i risultati elettorali sono influenzati dall'andamento economico. Gli elettori attribuiscono, come in assenza di memoria, peso predominante alle performance del periodo più vicino alla scadenza elettorale, E, d'altro canto, sono miopi ed ignari delle conseguenze relative di lungo periodo delle politiche poste in atto nel periodo pre-elettorale.
Quindi, il problema sta nel fatto che le manovre economiche che giovano realmente al paese impiegano anni per manifestare i loro effetti. I governanti questo lo sanno bene, e la loro preoccupazione è che, una volta manifestatisi, non gli si attribuisca più il merito di averle messe in atto, così come non gli si attribuirà la colpa delle ripercussioni negative future della loro condotta (che verrà addossata ai governatori coevi alla manifestazione di queste ultime).
Ed è questa miopia che rende esigui gli investimenti in scienza pura, ossia, quella non applicata. Questa, infatti, ha bisogno di anni per dare i suoi frutti ( c'è bisogno di trovare una possibile e conveniente applicazione industriale che la trasformi in tecnologia).
La cruda realtà è, però, un'altra: solo l'essere pionieri nella scienza permette di esserlo nella tecnologia!!!

AAA Grande casa per grandi cervelli cercasi (possibilmente in Italia).


Massimo McMutton

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lunedì, maggio 09, 2011

Quell'orologio fermo.

Il treno rallenta, a volte si ferma alcuni minuti per ripartire goffamente in una danza sgangherata tra i binari. La stazione di Bologna si annuncia così a chi ci arriva. A differenza delle altre grandi stazioni,come Termini,Santa Maria Novella o Milano Centrale,a Bologna i treni non si fermano nel cuore delle banchine, non affacciano mai il loro muso su un'unica passerella,ma aspettano pazienti il loro carico fuori dalla stazione. Quando tanti anni fa ci sono arrivato sapevo che la prima cosa da vedere era l'orologio fermo proprio accanto all'ala della stazione che la bomba aveva sventrato. Dopo averla ricostruita, quella è diventata la sala d'aspetto,dove è visibile un vecchio ritaglio di pavimento scavato dall'esplosione,proprio sotto ad una targa con l'elenco delle vittime. Di fianco c'è lo squarcio di quel giorno. Uno squarcio nel muro, lasciato per poter colpire l'attenzione di chi ci passa,anche solo per un attimo. Anche solo per domandarsi: come mai quel muro è stato lasciato così? E' un paradosso che quella zona della stazione sia stata adibita a sala d'aspetto. Perché su quella targa ci sono 85 nomi, e sembra quasi che riempiano gli spazi vuoti delle sedie. Anche loro in attesa di una verità che è stata negata, ed è seppellita in quel vergognoso capitolo della storia italiana intitolato "stragismo". La giornata di oggi,dedicata alla memoria per le vittime del terrorismo, è una flebile risposta da parte del governo italiano, che ha voluto premiare lo sforzo delle associazioni dei familiari, affinché la condanna alla follia del terrore fosse netta e partecipata. Ma è arrivata tardi, troppo tardi. Troppi anni di silenzio e di ambiguità che hanno reso tanto doloroso il ricordo. Riaprendo gli archivi storici, si ha la netta sensazione che qualcosa non torni, che il depistaggio, le informazioni false e il continuo rimbalzare di accuse e colpe abbiano totalmente soffocato il percorso verso la verità. Un percorso che in alcune circostanze ha cessato la sua vita legale, come nel caso di Piazza della Loggia. Un percorso che ha visto lo stesso governo colpevole di aver taciuto e non aver fatto abbastanza,come per Aldo Moro. Un percorso che non ha restituito alcuna dignità alle vittime ed ha segnato l'inizio di un calvario di chi non aveva risposte ed è rimasto da solo col suo dolore. Siamo davvero fortunati a non sapere che cosa significhi vivere l'enorme beffa che segue al danno, rincorrendo voci,supposizioni e tesi che mettano una pietra sopra agli eventi e lascino liberi di continuare a guardare avanti.

Il Presidente della Repubblica ha colmato un grande vuoto istituzionale,istituendo questa giornata pochi anni fa. Ma non è alla politica che bisogna guardare in questo momento,ma dentro noi stessi. Saremo in grado di guarire dal vuoto di memoria che tutto questo silenzio ha generato? Saremo in grado di far nostra questa giornata, imparando a partecipare ad una celebrazione della collettività e del senso di unità, che vogliono toglierci a tutti i costi? Siamo davvero così incapaci di restare uniti?
Mentre ripenso a Bologna, mi torna in mente quell'orologio fermo. E mi viene da pensare che vittima è proprio l'Italia. L'Italia tutta intera. Finché tutto questo alone sospeso attorno alle nostre ferite resterà uno spettro da allontanare, saremo vittime anche noi, in quanto cittadini, del terrorismo.

Alessio MacFlynn



domenica, maggio 08, 2011

Per colpa di...



Questa non so proprio come raccontartela. È una questione di colpe, ecco. Quando l'emozione si fa troppo grande non riesco ad abbracciarla più tutta, e allora gli rifilo un paio di calci e cerco di sputargli un po' addosso.  È una questione di colpe, a volte, la passione. E allora ho voluto dirgliene quattro. A lui. Perché è tutta colpa sua, ecco.

Per colpa di Tom Waits sono passato alle Lucky Strike, quando ero al liceo. Di media un pacchetto al giorno, giusto per assicurarmi che la mia voce assumesse due tonalità in meno. Non contento ho iniziato anche a soffiare via il fumo proprio come avevo visto fare nei suoi live e nei film dove compariva. Un piccolo spazio al lato della bocca. Mai troppo grande, mai troppo piccolo. E sempre stringendo la sigaretta con due dita ben tese.

Per colpa di Tom Waits ho iniziato a collezionare cappelli. Ne ho di tanti tipi, anche se non li indosso spesso. Ma è bello sapere che ci sono quando servono.

Per colpa di Tom Waits ho un pianoforte e quelle poche canzoni che so suonare sono le sue.

Per colpa di Tom Waits ho speso un mucchio di soldi in dischi, cd, libri e dvd.

Per colpa di Tom Waits ho dormito molte notti vestito. E in effetti non era davvero necessario.

Per colpa di Tom Waits ho iniziato ad amare la pioggia e la sorpresa della gente che non se l'aspetta.

Per colpa di Tom Waits ho pensato che non fosse poi così male ubriacarsi da soli e bighellonare per tutta la notte, in cerca di storie e persone sole quanto me.

Per colpa di Tom Waits ho scoperto che ogni oggetto può essere uno strumento. Le porte che cigolano, le seghe elettriche, le sedie trascinate e i vecchi cerchioni non fanno rumore. Hanno solo una voce strana.

Per colpa di Tom Waits ho capito che non serve essere intonati per poter urlare.

Per colpa di Tom Waits ho sperato che gli ultimi potessero davvero essere i primi, perché i primi non hanno molto da raccontare.

Per questo e quello, ogni tanto mi ritrovo a litigare con chi, senza saperlo, ha un ruolo silenzioso nella mia vita. Non è semplice emulazione. Come diceva Pavese, nei grandi libri si trova la vita già scritta, così come pensiamo debba essere scritta e raccontata. Ecco, la sensazione è proprio questa. Come se qualcuno avesse già detto tutto al posto mio, e lo avesse fatto così bene da non lasciarmi neanche le briciole.

E allora mi viene da incolpare qualcuno,come se tirassi sassi al vento.
Ma alla fine non si tratta neanche di questo.
Semplicemente è che così funziona l'amore.



Alessio MacFlynn