
Questa è la storia di una squadra di calcio. Una di quelle
che in un altro paese definirebbero una “nobile decaduta”, con una storia
importante alle spalle, dei grandi giocatori che i tifosi possono rimpiangere
dai loro poster in bianco e nero, e qualche piccola vittoria mai goduta a pieno
e mai seguita da un ciclo vincente. Perché il calcio, da che mondo e mondo ,è fatto
di cicli. Un bravo allenatore che porta alla vittoria la squadra in breve tempo,
ottimi giocatori che diventano campioni e onesti mestieranti che acquistano
fiducia, ci mettono il cuore e magari te li ritrovi anche in nazionale. Vincere
aiuta a vincere, dicono quelli bravi, di conseguenza chi perde comincia a farci
il callo, nella sconfitta è facile sguazzarci, fa tenerezza, simpatia, quella
sfiga che un po’ piace.
È la storia di una partita che sembra di fine stagione ma non lo è, che non si
capisce bene se sia aperta al pubblico o a porte chiuse. Ma forse non è neanche
così importante, perché gli ultras sono disillusi da tempo. Per questa squadra
non si fanno più gli striscioni, nessun coro di incoraggiamento, qualche slogan
di contestazione nei confronti della società ma neanche troppo convinto. A
vedere la squadra ci va qualche sparuto nostalgico, ogni tanto qualche famiglia
che la domenica non sa cosa fare. Comincia a far freddo, di andare al mare non
se ne parla e le gite fuori porta sono storie di altri tempi, di benzina che
non pesa troppo sul bilancio.
Ora questa squadra deve giocare una partita strana, perché strana è la fase che
sta vivendo il campionato in cui gioca. Di campioni non ne nascono più, o magari
non si riesce a valorizzarli. Sarà che non si gioca più a pallone per strada,
che non si vanno più a raccogliere le palle da sotto le marmitte o nel giardino
dei vicini. Sarà che bisogna ricominciare dai vivai, che bisogna fare come in
Germania, come in Catalogna, chiudere le frontiere, costruire stadi di
proprietà e altri rimedi facili che son diventati frasi fatte, messaggi
predefiniti da smartphone.
Si arriva alla conclusione che questa squadra così sfigata e sgangherata, in un
campionato dove non ci sono più soldi, idee e glorie, lo scudetto può
addirittura vincerlo. E quasi non se ne fa una ragione.
Prima bisogna decidere chi sarà il capitano, quello che porta in campo il
gagliardetto, che passa quello degli avversari al massaggiatore, dialoga con l’arbitro,
mette il faccione sui manifesti della campagna abbonamenti e le braccia che
alzano una coppa nei sogni dei tifosi.
Vediamo allora chi sono i papabili leader di una squadra per cui i tifosi non
sono neanche sicuri varrà la pena spenderci un fumogeno per la fumata rossa.
Pierluigi Bersani
Bersani è un giocatore vecchio stampo. Un difensore senza fronzoli, con i piedi
quadrati. È uno stopper di un’epoca in cui lo stopper non esiste più, un
marcatore a uomo quando ormai si gioca a zona, uno che si evita sempre di
prendere al fantacalcio perché non sale in attacco neanche sui calci d’angolo.
E nel calcio moderno si sa quanto siano importanti i difensori che segnano.
Bersani si distingue per il senso della posizione, che poi è un modo gentile per
evidenziarne la lentezza. Per dare un’idea, è una sorta di Baresi, senza la
forza, la regia difensiva, la capacità d’anticipo e il carisma. Di Baresi in
pratica gli rimane il braccio alzato a segnalare un fuorigioco che non c’è e i
guardalinee ormai non ci fanno più neanche caso.
Matteo Renzi
Renzi è il nome nuovo della squadra, quello annunciato e trascinato dai media
come nuovo fenomeno, con tanto di paragoni esorbitanti con grandi giocatori del
passato o fenomeni attuali di campionati stranieri. E via di “il nuovo X”
oppure “L’Y italiano”… Fino ad ora però il giovane fenomeno si è distinto più
per le “prodezze” fuori dal campo che per una chiara idea di gioco. A dirla
tutta è anche un giocatore di difficile collocazione tattica. Troppo pigro per
inseguire gli avversari, da terzino manda tutti i cross in tribuna, dietro le
punte sbaglia puntualmente l’ultimo passaggio e in avanti la spara sempre in
bocca al portiere. Ma ha una costante, è sempre colpa dei compagni che non capiscono
i suoi movimenti in campo, sono abituati ad un tipo calcio ormai superato, che
per risolvere una partita che si è messa male devono semplicemente passargliela
e
poi ci pensa lui.
Però è giovane, e, in un campionato come il nostro dove si rimane giovani e
promettenti
per almeno dieci anni, quando
alla stessa età all’estero hanno vinto talmente tanto che a France
Football
cominciano a stancarsi di
votare, non è cosa da poco. Renzi guarda al futuro, è uno che arriva prima
degli altri. È un Bosman prima della sentenza Bosman e sarà la storia a
giudicarne la bontà, e forse neanche quella, come per la
sentenza Bosman. Di
sicuro il buon Matteo ha un ottimo procuratore, e i tifosi già malignano sulla
natura del suo acquisto. Si vocifera di una cortesia tra società, uno scambio
di giovani presunte promesse, che probabilmente passeranno alla storia solo
quando qualcuno aprirà un’inchiesta per plusvalenze false.
Nichi Vendola
Vendola è croce e delizia dei tifosi. Amato o odiato senza vie di mezzo è
arrivato in prima squadra anni fa riaccendendo la luce dei più pessimisti. “Un
crack assoluto”, dicevano sempre quelli bravi. “Con questo siamo a posto per
anni”, diceva chi lo vedeva già a fare il giro di campo col pallone d’oro. “Ma
quell’orecchino?”, diceva l’arbitro. Nichi col pallone ci sa fare, tecnicamente
è secondo a pochi, vederlo giocare è un piacere per gli occhi. Per questo viene
preso subito di mira dagli avversari che ci vanno giù duro fin dai primi minuti
della partita, entrate da dietro, colpi proibiti lontano dagli occhi delle
telecamere. Lui col tempo si intimidisce, non prova i numeri che provava prima.
“Fa tutto bene tranne la conclusione…”, “L’ha tirata troppo bene…”, “Deve
essere più cattivo…”. E poi ci sono gli infortuni, i dissidi con l’allenatore,
le panchine. I suoi sostenitori più appassionati diventano i critici più
feroci. Per qualcuno non è un giocatore da grande squadra, non regge la
pressione, nelle grandi partite sparisce. Peccato, perché giocare gioca bene.
Laura Puppato
La Puppato è l’outsider, sconosciuto anche allo speaker che annuncia la
formazione. È quel tipo di acquisto che un po’ entusiasma i tifosi, perché certi
acquisti vanno fatti, tanto non si rischia niente. Va a finire che questi tipi
di giocatori, soprattutto se accompagnati da un cognome spiritoso, servano
soprattutto a scatenare l’umorismo degli avversari. Facile trovare nelle curve
avversarie sagaci giochi di parole, cori creati ad hoc e battute nei bar che
rimarranno indelebili negli anni. La Puppato viene da una zona d’Italia dove
questa squadra non è molto amata, dove di solito si tifa per un’altra società o
addirittura per un altro sport. Insomma, la sua candidatura a capitano, con tutto
il bene che può aver fatto nelle serie minori, sa più di concessione
democratica. Tanto, lo sa anche la dirigenza, non si rischia niente.
Parlando di dirigenza c’è un componente che merita una
menzione. L’ex giocatore che non ha mai veramente giocato la sua partita d’addio,
ma non perché non gli sia stata concessa da una società irriconoscente, più per
vezzo. Lui è il dirigente accompagnatore che ormai accompagna solo le bestemmie
dei tifosi, nel loro cuore più che la breccia ha creato un soffio talmente
pericoloso da sfiorare regolarmente l’angina pectoris. Il vecchio dirigente coi
baffi non è esattamente l’uomo più simpatico del mondo, e se gli antipatici
vincenti si sopportano a malapena quelli perdenti vengono dietro solo all’inventore
del golden gol. Però in società fa sentire la sua voce, sbatte i pugni e
pretende carta bianca sulla campagna acquisti. Nessuno ha mai compreso se di
calcio proprio non capisca nulla o se in segreto lavori per gli avversari. Sarà
per quella vecchia storia mai veramente chiarita delle partite vendute.
Perché si sa, in Italia si pensa sempre male, e nel calcio non è neanche
peccato.
Andrea McManaman