sabato, febbraio 16, 2013

Sound City, un'anteprima.



Sound City è il primo documentario diretto da Dave Grohl, uscito negli Stati Uniti da poche settimane. Un esperimento nuovo per l'ex batterista dei Nirvana e attuale leader dei Foo Fighters. Sound City era il nome di uno studio di registrazione di Los Angeles. Un posto squallido, incastrato nella San Fernando Valley tra i miasmi delle autostrade e la puzza proveniente dalle distillerie Bud. Non era un luogo di richiamo, non c'erano turisti di fronte all'entrata ad imbrattare i muri o a camminare avanti e indietro sulle strisce pedonali. E lo squallore esterno sembrava arrivare fin dentro lo studio di registrazione. Fatiscente, sporco, arredato come un grande camper abbandonato nel deserto. Apparentemente nulla avrebbe potuto lasciar intuire cosa accadeva lì dentro, ed è qui che bisogna iniziare a tirar fuori qualche nome. Nel documentario si sente tutto l'entusiasmo di Dave Grohl nell'elencare decine e decine di artisti che hanno inciso la loro musica a Sound City. Il ritmo delle immagini e dei suoni accelera in modo vertiginoso, come se fosse seduto accanto a noi in macchina e non riuscisse a scegliere tra centinaia di stazioni radio preferite. Fleetwood Mac, Neil Young, Grateful Dead, Santana, Tom Petty, Fear, Dio, Rage Against The Machine, Red Hot Chili Peppers, Johnny Cash e molti, moltissimi altri. Come ha fatto Sound City a farsi un nome e ad attirare così tanti artisti? Il film si focalizza, anche attraverso numerose interviste ai protagonisti di quest'avventura, su tante diverse sfaccettature. Sicuramente il clima spensierato e amichevole della sala e delle persone che lavoravano lì ha avuto i suoi meriti: le ragazze nell'ufficio, le nuove leve, i produttori, tutti quanti uniti per contribuire all'approdo di un progetto che potesse avere un buon impatto nel mercato musicale, sfruttando le particolarità che facevano di quello studio un luogo speciale.



Risulta un po' difficile spiegare l'importanza che ha avuto la ricerca dei suoni nella storia della musica, soprattutto in tempi in cui si bada poco alle sfumature di un disco. E Sound City era molto più di un semplice studio dove lasciare che i produttori si occupassero di tutto. Bisognava suonare sul serio. A disposizione gli artisti potevano contare su uno dei banchi di mixaggio più unici al mondo: la Neve Board. Una vera e propria postazione spaziale, piena di tutte le regolazioni necessarie per incidere su nastro ad altissima qualità senza mai avere sbavature. Data la meccanica assolutamente precisa di questo strumento, la band doveva lavorare per eseguire in modo perfetto le canzoni, dato che c'era pochissimo margine per poter correggere gli errori. Se qualcuno sbagliava, in qualsiasi punto del brano, bisognava fermarsi e ricominciare. Sarebbe impensabile per i gruppi di adesso trascorrere giornate intere a ripetere un unico brano per farlo suonare esattamente come si desidera. La tecnologia in campo musicale ha fatto davvero dei salti da gigante, portando innovazioni rivoluzionarie. Chiunque può registrare la propria musica usando un computer, praticamente a costo zero. E l'impossibilità di far fronte a questa rivoluzione, ha fatto attraversare diversi periodi di crisi allo studio californiano.



Shivaun O'Brien, l'ultima manager dello studio, ricorda di essere entrata a Sound City nel 1991. Si prospettava una chiusura praticamente imminente. Ma una sorta di miracolo accadde nella primavera di quell'anno. Dave Grohl, Krist Novoselic e Kurt Cobain entrarono a Sound City per registrare Nevermind. Ci vollero sedici giorni. Nonostante Kurt Cobain avesse più volte espresso un certo disappunto per le registrazioni e per il suono "troppo perfetto" del disco, Nevermind rimane ancora uno degli album fondamentali del rock, nonché uno dei più venduti nella storia della musica. Durò ancora dieci anni la fama di Sound City, fino all'inevitabile chiusura del 2011. Dave Grohl ha deciso di acquistare la Neve Board e di portarla nella sua sala di registrazione, cercando di conservare un po' dello spirito dello studio che li ha ospitati e ha reso possibile il loro successo. Il progetto del documentario avrebbe potuto fermarsi qui, invece questa sorta di resurrezione musicale è stata celebrata con un disco realizzato dai diversi artisti che hanno registrato a Sound City: Rick Springfield, Joshua Homme, Trent Reznor, Corey Taylor, Stevie Nicks e un insolito Paul McCartney per il gran finale.

Sicuramente lontano dallo stile narrativo che Martin Scorsese utilizza per i suoi documentari musicali, Dave Grohl è riuscito a bilanciare le diverse influenze, facendo in modo che l'entusiasmo fosse palpabile e la nostalgia non pesasse troppo sulla storia.



Alessio MacFlynn

venerdì, febbraio 15, 2013

Quella fotografia dimenticata.




Palermo, Sicilia: la madre di Vincenzina Piazza, che, secondo quanto riportato, è stata uccisa dal suo fidanzato, si butta in ginocchio davanti ai giudici della corte d’assise di Palermo e grida: “Giustizia per mia figlia!” mentre si svolge il processo al presunto killer. L’imputato in questo processo, il contadino Vincenzo Comparetto, aveva appena ritirato la sua deposizione dove ammetteva di averla uccisa quando si è rifiutata di sposarlo a causa dei problemi di salute dell’uomo.

19/7/1965. (UPI PHOTO)
 



mercoledì, febbraio 13, 2013

Building Stories.





La vita passava attraverso il pensiero, certo, ma inevitabilmente attraverso il linguaggio. E com’era questo linguaggio? Qualcuno aveva mai provato a scriverlo? Raccolte le ultime energie, con la voce di un invasato, lo scrittore tuonò: “Ci proverò io!”.

Marco Rossari - Ci hai provato, James da L’unico scrittore  buono è quello morto.

Se vi capita di trovare in libreria una specie di scatola che ricorda quella dei giochi da tavolo, sappiate che lì dentro c’è qualcosa che non assomiglia a niente di quello che avete letto fino ad ora. Si chiama Building Stories, e l’autore è Chris Ware. Quasi undici anni di lavoro, quattordici formati diversi su cui sono impresse le storie disegnate: libricini, pamphlet, fogli grandi come quotidiani, anche sui bordi della scatola ci sono piccoli pezzi di questo racconto senza ordine e senza una vera e propria fine.  La storia si può leggere seguendo il proprio intuito, scegliendo casualmente o provando a dare un senso a quel disordine voluto. E forse si può dire che la conclusione sia nascosta tra le righe, da qualche parte, ma non è così importante in fin dei conti. 



Di cosa parla Building Stories? Ci viene concesso di spaccare i muri di una casa, come se avessimo delle mani gigantesche e ci fosse permesso di scoperchiare il tetto per guardare dentro. La stessa operazione ci permetterà di entrare tra i pensieri di una donna e della sua vita, viaggiando tra l’infanzia e i ricordi. Una vita complessa, segnata da un incidente che ha portato all’amputazione di una gamba. I pensieri oscillano tra l'inquietudine per i sogni che non si realizzano per colpa della propria insicurezza e il trascorrere del tempo che non sembra portare serenità. A dare ordine a questa storia ci pensa lo stile di Chris Ware, che, con i suoi disegni precisi e nitidi, lascia che il coro di voci che compongono Building Stories non si disperda. Oltre al racconto di questa donna senza nome, ci sono quelli degli altri abitanti della vecchia casa di Chicago dove vive per un periodo della sua vita. E scava molto in profondità, con una ridondanza che può quasi atterrire, ma che rispecchia in modo fedelissimo quella specie di litania mentale che ogni persona ripete quotidianamente alla ricerca quasi disperata della propria essenza. Per quanto riguarda la composizione di Building Stories, Chris Ware ha detto di essersi ispirato ai lavori di Marcel Duchamp. In particolare, il New Yorker, per cui Ware ha realizzato diversi lavori, pubblicando anche alcune parti di Building Stories, ha citato la Box in a Valise, una valigia che conteneva le miniature dei lavori più importanti di Duchamp.

Marcel Duchamp - Box in a Valise


“With the increasing electronic incorporeality of existence, sometimes it’s reassuring—perhaps even necessary—to have something to hold on to.”

Dietro la scatola che contiene Building Stories ci sono alcune righe scritte da Chris Ware, che, in qualche modo, giustifica la necessità di realizzare un’opera titanica, paragonata all’Ulisse di James Joyce per maestosità e profondità di contenuti. Si soddisfa così quella curiosità che il libro dello scrittore di Dublino ha sempre suscitato. L’idea di penetrare così a fondo nel linguaggio della vita e del pensiero, superando lo scoglio della complessità dei riferimenti e delle citazioni che lasciano centinaia di lettori incagliati dopo la lettura delle prime pagine, ha trovato un nuovo compimento in questo lavoro così ambiziosamente bello.


Alessio MacFlynn

lunedì, febbraio 11, 2013

Attilio Manca e la sopravvivenza del ricordo.





Mi sono chiesto, guardando le fotografie in bianco e nero, se fosse così insolita quella sensazione che prende alla gola quando si percepisce l'occultamento della verità. E invece no, non tornava nuova. 
Attilio Manca, il 12 Febbraio del 2004, è sdraiato, abbattuto sul suo letto, ucciso da due siringhe di droga e sonniferi, con il setto nasale deviato e così tanto sangue da attraversare il materasso e formare una pozza. Ha sbattuto il viso sul telecomando, così hanno detto. Un urologo di ottima fama, un giovane di talento, nato a San Donà di Piave ma di origini siciliane, nove anni fa è stato trovato morto in un appartamento perfettamente in ordine e vuoto di impronte, senza che questo destasse sospetti. Le siringhe che sono state rinvenute erano incappucciate e riposte, dopo una dose letale di droga, senza nemmeno una traccia delle dita. Un mancino naturale, con due buchi nel braccio sinistro. Le persone che lo conoscevano non hanno mai creduto all’ipotesi del suicidio. Poteva davvero trattarsi di un raptus, di un momento di follia autodistruttiva? Nessun ricordo, nessun frammento della vita di questo giovane medico sembra ricondurre ad una volontà suicida così agghiacciante. C’è un momento chiave in questa vicenda, un momento che necessiterebbe di prove più evidenti che non siano soltanto coincidenze. Il momento è quello che lega la permanenza di Attilio a Marsiglia, proprio nel periodo in cui un certo Gaspare Troia arriva nella città francese per un importante intervento chirurgico alla prostata nel Luglio del 2003. Quel vecchietto che entra nell’ospedale francese è in realtà Bernardo Provenzano, il capo mafia super latitante. Certo, può essere un caso, ma nelle parole del pentito Ciccio Pastoia, trascritte da alcune intercettazioni poco tempo prima che si impiccasse in carcere, veniva menzionata la presenza di un medico siciliano in sala operatoria. Attilio Manca non era un urologo qualsiasi, era uno dei migliori. 

Durante le perizie nel bagno della casa dove è stato trovato il corpo, è stata identificata l’impronta del cugino di Attilio, Ugo Manca. Stando alle dichiarazioni rilasciate dal cugino, quella traccia risalirebbe ad una visita effettuata durante il Dicembre del 2003. Ugo Manca ha un passato giudiziario poco limpido e nella sua storia giudiziaria compaiono diversi nomi legati al traffico di droga nella città di Barcellona Pozzo di Gotto. Inoltre, stando alle dichiarazioni della madre di Attilio, l’appartamento era stato pulito personalmente da lei durante i giorni della vigilia di Natale del 2003, e questo escluderebbe la presenza di una impronta datata al mese di Dicembre.  



La vicenda di Attilio Manca è stata raccontata e sviscerata molte volte. Purtroppo tutte queste analisi sono arrivate tardi e non sono servite a concentrare gli sforzi e l’attenzione necessaria per sciogliere il filo che avvolge un mistero vergognoso. L’ennesimo, nella storia italiana, l’ennesimo puntualmente macchiato di casualità che non si riescono a spiegare, e dove l’ombra mafiosa sembra seguire pedissequamente i passi lenti dello Stato. Se davvero Attilio ha assistito all’intervento di Bernardo Provenzano, in quel momento è diventato un personaggio scomodo, e la rete di protezione del boss ha potuto benissimo pensare di dover eliminare un possibile testimone.

Vicino al corpo di Attilio Manca, c’era Maus, il fumetto di Art Spiegelman. Me lo ha fatto notare Ornella Gemini, la mamma di Niki Aprile Gatti. Scuotendo la testa ha ripetuto che non era davvero possibile scegliere di morire in quel modo, e che quella storia disegnata, vicino al corpo senza vita di Attilio, ne era a suo modo una prova. La tragedia dell’Olocausto, vissuta attraverso una testimonianza rivisitata in modo completamente originale, vede raffigurati gli ebrei come topi. Costantemente in fuga, alla ricerca di aiuti e di nascondigli, costretti a camminare sui cadaveri dei propri amici nei campi di concentramento. Attilio non doveva nascondersi, non aveva fatto nulla, ma, probabilmente, era finito in una trappola. Art Spiegelman disegna i nazisti coi tratti di gatti meccanici, dal nero dell’inchiostro emergono gli occhi carichi di malvagità. Ecco, forse quello che non riesce a trovare lo spazio definito nella narrazione di questa vicenda è il contorno preciso di una responsabilità visibile, l’immagine che proietti nella nostra coscienza il confine mal tracciato tra la malavita e le istituzioni che dovrebbero difenderci da essa. 



Oggi pomeriggio, a Barcellona Pozzo di Gotto,verrà ricordato Attilio. Verrà celebrata una messa da Don Ciotti, e si terrà un incontro-dibattito con numerosi ospiti, per non spegnere la luce della memoria su un caso che si è voluto chiudere a tutti i costi, in modo approssimativo e frettoloso, nonostante tutte le contraddizioni.


Alessio MacFlynn