mercoledì, marzo 27, 2013

Kevin Powers, Yellow Birds.


(photo: Melissa Golden)
















I had a good home but I left
I had a good home but I left, right, left

(Tom Waits - Hell Broke Luce)


Alla guerra ci si abitua. Un'abitudine che non fa notizia, che non racconta i sonni inquieti e l'indifferenza, tanto pericolosa quanto necessaria per non perdere la testa. Si insinua nei gesti e sulla pelle, svelandosi al risveglio, nei muscoli che stringono un fucile che non c'è. Fa calare una patina opaca sugli occhi di chi ce l'ha fatta e vive nel tormento di non saper raccontare. Abitudine, meschina da riconoscere solo quando ci si trova di fronte alla normalità e non sapere cosa farsene, tanto da domandarsi "E adesso?". 


Ho letto Yellow Birds di Kevin Powers (Einaudi) tutto d'un fiato. Un soldato, dal momento in cui indossa la divisa e parte per una missione, non ha più un'età da rivendicare: tutto quello che vedrà, sentirà e farà, dilaterà i giorni per riempirli con qualcosa che lo cambierà per sempre. John Bartle ha ventun anni, Daniel Murphy diciotto. Si conoscono e fanno amicizia durante l'addestramento che li porterà a combattere fianco a fianco in Iraq, guidati dal sergente Sterling, un uomo tanto odioso quanto coerente nell'incarnare la lucida follia di chi vuole avere salva la pelle ad ogni costo. Il libro bilancia perfettamente la narrazione dello scenario di guerra e quella del ritorno a casa di Bartle. Il titolo prende spunto da una filastrocca macabra usata dai militari in marcia: un uccellino giallo viene fatto avvicinare con un pezzo di pane solo per essere ucciso crudelmente. Ma richiama anche il racconto che Murph fa al suo amico, di quando il padre, lavoratore in miniera, portò a casa i canarini destinati al sacrificio nella cava per liberarli. Appena usciti dalle gabbie avevano svolazzato un po', ma poi erano finiti a posarsi sulle loro gabbie, smettendo di cinguettare.


Bartle porta con sé il segreto sulla morte del suo amico Murph. Non è solo la promessa di non essere riuscito a prendersi cura di lui che lo torturerà. La storia di questa amicizia si compone di tanti piccoli tasselli che riemergono come gocce d'olio sporco sulla superficie della memoria. In guerra bisogna guardarsi sempre le spalle e ogni rapporto che nasce ha un prezzo. Per quanto si cerchi di fare il vuoto attorno, qualsiasi scambio diventa prezioso per poter guardare avanti senza sporgersi troppo.  Piccole scaramanzie si trasformano nei segni dove poter rintracciare un destino che deve compiersi. La conta dei morti che si avvicina alle mille unità e il desiderio di non farne parte, tirando anche un macabro sospiro di sollievo quando a morire è un altro. E anche la morte non è altro che un marchio già impresso sulla pelle di chi parte. Daniel Murphy non ce l'ha fatta. La sua testa era già a casa, il suo cuore si è ribellato non riuscendo a digerire l'ennesimo strappo: ha rivendicato il diritto di scegliere e di volere, contravvenendo alla logica militare che impone solo obbedienza. Uno sbaglio che è difficile da definire per chi non sa cosa voglia dire mettere in discussione la propria libertà.


Kevin Powers ha combattuo in Iraq come mitragliere. Il suo racconto, attingendo così bene dall'esperienza, non incontra ostacoli, e l'impatto con la superficie delle emozioni è perfettamente tangibile. Nelle sue parole rivivono i mille racconti che hanno contribuito alla costruzione collettiva di un'esperienza che il genere umano non potrà mai scindere dalla sua storia. Così follemente consueta e allo stesso tempo inconcepibile. 

Yellow Birds è l'abisso di una perpetua contraddizione e la resa di fronte all'inevitabile disperazione. 
Non c'è un rimedio quando si diventa imputati e giudici allo stesso tempo, in totale solitudine, in attesa di una morte vigliacca.




Alessio MacFlynn




lunedì, marzo 25, 2013

La schiuma dei giorni: playlist.


Ho scoperto l'esistenza di un pianoforte interattivo, che riceve richieste via Twitter e suona le canzoni proposte. L'ha sviluppato lo studio DIGITALKITCHEN di Seattle, e si chiama Stanley. Ora, non avendo ben capito che gusto ci sia a far suonare un pianoforte dove non posso ascoltarlo, un po' come il famoso albero che cade nella foresta, e avendo sempre pensato che serva sempre un pianista da minacciare con la pistola, mi è tornato in mente il pianocktail di Boris Vian.

Il pianocktail non è altro che un pianoforte modificato, collegato ad una batteria di bottiglie, spezie e ingredienti vari, da azionare a seconda dei tasti che vengono toccati. Ogni canzone produce una miscela diversa di cocktail. La musica di Duke Ellington, una delle due cose per cui vale la pena vivere, costituisce la colonna sonora del libro La schiuma dei giorni di Boris Vian (edizioni Marcos Y Marcos).

Saltellando su internet, è possibile trovare alcuni esemplari di pianocktail, funzionanti e ben equipaggiati. 

(n.b. il prezzo varia dai duemilacinquecento ai tremila dobloncini).


Bruxelles, Pianocktail Bistrot.





Pianocktail a sensori elettrici di Florica Vlad e Oscar Torres.




Così come per Vizio di forma di Thomas Pynchon, ho creato una playlist raccogliendo tutte le canzoni citate nel libro. Un modo come un altro per scoprire questo classico sopra le righe. Basta premere play e potrete accedere al canale Youtube. 



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