sabato, giugno 22, 2013

Tom Tales.



Nell'introduzione di Paul Maher Jr. a Il fantasma del sabato sera (ed. Minimum Fax, traduzione Claudia Durastanti), il libro che ha curato con le interviste che Tom Waits ha rilasciato nel corso della sua carriera, c'è questa domanda: "Non riuscirebbe a rendere interessante l'impensabile?" Per certi versi è quello che il caro vecchio Tom fa da una vita, mi sono detto. E la coerenza che sta nel suo personaggio è quella che permette di rendere davvero interessanti anche delle semplici interviste. A Tom piace raccontare storie, inventarle, prendere la realtà e farla rotolare giù da una scarpata. E quando provano ad incastrarlo, cercando di tirar giù la maschera, lui sguscia via con molta eleganza. Prende tutto lo spazio che vuole e lo riempie a suo piacimento. Riesce a rispondere alle domande di giornalisti fantasma e, se vuole, intervista se stesso per avere l'occasione di narrare quello che a nessuno verrebbe in mente di chiedere. Lui tiene il volante e sta a noi occupare i sedili di dietro. 

Quelle che seguono sono alcune delle storielle raccolte durante il Glitter and Doom Tour del 2008. Uno dei due dischi che compongono l'album è dedicato interamente ai suoi racconti, piazzati tra una canzone e l'altra. Sono quasi quaranta minuti, senza nessuna pausa, come una storia unica: Tom Tales. Ne ho tradotte alcune, cercando di renderle scorrevoli e tagliando qualche "you know". Il guaio è che ci sono molte storie dove i giochi di parole sono praticamente impossibili da trasporre, e alcuni misunderstandings rischiano di perdere tutta l'efficacia, per cui non me la sono sentita di parafrasarle. Se volete, ad ogni modo, nel video qui sotto potete ascoltare tutta la traccia e qui nel link trovate il testo in inglese





Ok, va bene, grazie, va bene ... ora possiamo chiacchierare un po'. Ok, questa è davvero strana. Sapete, gli avvoltoi, ho visto un sacco di avvoltoi da quando ho passato il confine con il Texas, un sacco di avvoltoi. La cosa interessante degli avvoltoi è che, beh, la ragione per cui passano così tanto tempo in aria è perché sono molto leggeri, visto che mangiano davvero  di rado. Quindi sono solo piume, perlopiù. Perciò un sacco di volte li vedrete volare e penserete "Oh, probabilmente sta per atterrare e andrà a mangiare", ma molto spesso starà pensando tra sé sé "Come cazzo faccio ad arrivare laggiù? "Ora, qui viene la parte triste, immaginate di trovarvi nei loro panni. La maggior parte degli avvoltoi che rimangono feriti, questo secondo il Bird Rescue.. la maggior parte viene ferita durante un pasto. Che è un po' triste...essere investiti da un'auto mentre si sta mangiando, ma il problema è che una volta che sono atterrati e si sono rimpinzati, mangiano così tanto, perché lo fanno davvero sporadicamente, e si ingozzano a tal punto che non possono spiccare il volo senza vomitare. Lo so, è dura...quindi..che razza di scelta! Uno ha appena avuto un pasto abbondante e deve rimettere tutta la dannata roba solo per tornare su nel cielo di nuovo. Penso a questa cosa tutto il tempo, quando sto passando dei momenti difficili.

Sapete, i topi non mangiano perché hanno fame...stanno solo accorciando i loro denti. E se non ci credete, beh...mio padre ha trovato un topo in una stanza, una stanza di cemento dove non c'era assolutamente nulla da mangiare, nemmeno un sasso...e il topo era rimasto lì per due settimane e non aveva avuto nulla da mangiare. Quello che è successo con i denti inferiori, è che sono cresciuti attraverso il palato e sono venuti fuori attraverso la parte superiore della sua testa e i suoi incisivi sono cresciuti giù per il mento e sembravano un pizzetto. Lo so, lo so...è difficile trovare persone che sono così interessate a queste cose come lo sono io.

Ok, bene...siamo stati in Oklahoma per un po'. Ragazzi! È strano in Oklahoma ... beh è strano ovunque, se ragioniamo così, ma in Oklahoma hanno delle leggi, ci sono delle leggi laggiù che sono ancora sui codici e che si sentono obbligati a rispettare. Questo è quello che mi dà fastidio, e non sto viaggiando con un avvocato, e ciò rende difficili le cose, sapete. Non si può lavare l'auto di domenica indossando biancheria intima di lana, soprattutto se si sfoggia un taglio di capelli insolito. Non ho mai afferrato il collegamento che c'è tra il taglio di capelli e la biancheria intima...l'altra cosa strana è che masticare tabacco è imposto severamente, e questo richiede del tempo per farci l'abitudine. Uh, che altro? Non si può fotografare un coniglio in mezzo alla settimana, per qualche ragione. Va bene durante i fine settimana, credo gli piaccia di più durante i fine settimana...non so dire. L'altra cosa è che non si può mangiare in un posto che sta anche andando a fuoco. Questo limita molto le nostre scelte. Ok, vediamo...c'è qualcos'altro, ecco, un' altra cosa strana...non è possibile far ubriacare un pesce in Oklahoma. Hanno appena avuto un sacco di problemi per quello, hanno dovuto mettere fine a questa storia... e non si può far fumare una sigaretta ad una scimmia, che è l'altra cosa... Lo so, lo so, lo so...

 ...ci sono più insetti in un miglio quadrato di terra che persone su tutto il pianeta. Pensateci, più insetti in un miglio quadrato che persone! Immaginate se dovessero votare o avessero patenti di guida o qualsiasi cosa ... ora, uhm, sapete di cosa odora la luna? 
(Il pubblico urla: "formaggio") Sbagliato di nuovo, vi innamorerete di questo...fuochi d'artificio. Questo è quello che Neil Armstrong mi ha detto, "Odora proprio di fuochi d'artificio". Ed ha perfettamente senso, non è vero? Quello è il posto dove li abbiamo sparati per tutti questi anni. 

Ad ogni modo, Neil Armstrong fu il primo uomo che di fatto camminò sulla luna, e il tizio  proprio dietro di lui, sulla scaletta che scendeva per toccare la superficie lunare, era Buzz Aldrin...che disse "Neil, tu sei il primo uomo a camminare sulla luna...io sono il primo uomo a bagnarsi i pantaloni sulla luna ". Lo ha detto, davvero, lo ha fatto. Me lo ha detto personalmente. Conosco Neil e conosco Buzz, tutto qui...e voi no...okay. Ma ancora, Science Magazine ha detto che la consistenza delle vere rocce lunari, la cosa più vicina che si può trovare sulla Terra che si avvicina alla consistenza delle rocce della luna, è il provolone o il cheddar del Vermont ... non vi sto prendendo per il culo te, non lo farei mai...

Un'ultima cosa su Sara Bernhardt, la famosa attrice americana...ehi, lei era uno schianto, era un vero schianto. Aveva la sua carrozza privata, dormiva in una bara e quando aveva settant'anni, ha interpretato Giulietta. Immaginate, Giulietta...a settant'anni...e ha perso una gamba e quando ha perso la gamba, Barnum e Bailey hanno acquistato la gamba, ovviamente...l'hanno messa sotto formaldeide e chiedevano una cosa come sei, otto dollari per poterla vedere. E questo fu deprimente per lei, naturalmente...perché lei lavorava dall'altra parte della strada, capite, la lei tutta intera...e sapere che la gamba era lì a fare più soldi di lei era così frustrante...ma questo è il business, questo è il business in cui siamo dentro.

In Oklahoma, è possibile finire nei guai se baciate un estraneo. Rifletteteci, voglio dire, si può andare in galera per un bacio ad un estraneo. Nel senso, siamo tutti estranei ad un certo punto, come potrebbe andare avanti il mondo se qualcuno non baciasse uno sconosciuto, giusto?

Ecco un'altra cosa...una piccola cosa sul cibo. Sapete che ogni volta che ordinate una porzione di pesce vi portano insieme una piccola fetta di limone, e tutti pensano che sia perché il sapore è decisamente migliore con il limone sopra... falso. L'idea è che in origine, quando la gente mangiava il pesce, era così spaventata di ingerire le lische e di incastrarsele nella gola e morire, che qualcuno ha detto loro: se mettete un po' di limone in bocca dopo che avete mangiato un boccone di pesce, questo distruggerà le lische, le dissolverà, le disintegrerà, il che naturalmente è una cazzata totale, ma è quello che è successo, e ora ci ritroviamo il limone il pesce e tutto il resto...ho avuto un insegnante di matematica, quando ero ragazzo, di nome Mr. Falby, che aveva mangiato un pezzo di pesce durante un test che stavamo facendo, e si è soffocato con una lisca ed è morto nel mezzo della nostra prova di matematica...è stata una specie di risposta ad una preghiera che avevo fatto poco prima. Non era così specifica...non ho menzionato nulla riguardo il pesce o l'osso o addirittura quel giorno...ma abbiamo un collegamento, credo.

Sapete cosa mi preoccupa davvero, è quando qualcuno vi dice che il suo telefonino è anche una macchina fotografica. Lo detesto. Cosa c'è di male ad avere qualcosa che è proprio quello che è, ed essere felici? Mi fa venire voglia di dir loro..."I miei occhiali da sole sono anche un triciclo." Ma non lo faccio...



Alessio MacFlynn


giovedì, giugno 20, 2013

Il divorzio di Putin e i cuoricini infranti.



La mia prima reazione quando qualcuno mi ha menzionato il divorzio del bel Vladimir, è stata esclamare “Evviva la famiglia eterocentrica tradizionale!” e subito dimenticarmene. Ma chiaramente non era questo il mio destino. Amici, conoscenti, professori, compagni e cittadini non hanno concesso la minima chance al mio bovino menefreghismo. Se n'è quindi dovuto parlare in abbondanza, qui a San Pietroburgo. Inizialmente sono emersi elementi di poco interesse e che avrei potuto ricostruire attraverso un qualunque giornale di cronaca rosa (e non), ovvero: erano ormai anni che Volodja e Ljuda non vivevano più assieme. Coinvolta è una certa Kabaeva, ginnasta dall'aria sospetta che, come tutti sanno ma nessuno dice, sarebbe l'amante del neo-rieletto presidente e la causa del patatrac. 

Quello che mi sorprende, invece, è vedere come questa notizia abbia messo in agitazione la società civile più, chessò, delle ultime leggi anti gay dal sapore di Inquisizione. Alla fin fine, a parte questa presunta amante, non ci sono stati particolari scandali che coinvolgessero, per esempio, la prostituzione minorile. 


Invece, mentre a lezione di italiano sto insegnando l'aggettivo 'scioccante' e chiedo un esempio, mi viene servito nuovamente il divorzio di Putin. A questo punto decido di smettere di ruminare, mi appoggio gli zoccoli alle tempie e chiedo:

“Ma come mai?”. 

“Perché lui è il nostro presidente” mi risponde Oleg. 
“Ed è il primo presidente che fa una cosa del genere”. 
“Credo che se non fosse così famoso non reagiremmo così” aggiunge Nikolaj. 

E qui sta il busillis. Il presidente sta davanti alla maggior parte dei russi come un modello di persona, più che di politico. Senza mai aver vissuto una vera e propria svolta democratica, in Russia è venuta a crearsi una strana situazione di equilibrio instabile fra una completa sfiducia nella politica e nella possibilità per il cittadino di fare la differenza, e l'abitudine praticamente intatta di guardare al leader come ad una personificazione paternalistica di morale e di valori. Putin in questo non ha nulla da invidiare ai grandi demagoghi e populisti del passato. Non si limita infatti a governare, bensì regna, non è un presidente per il Paese, bensì una guida. 

Ha riportato in auge l'ideale del maschio bianco eterosessuale macho conservatore e di religione imprescindibilmente ortodossa, orgoglioso di essere russo e pronto a schiacciare chi non lo assecondi. È un modello che funziona piuttosto bene, pare, vuoi per azzeccata propaganda, vuoi per la tendenza al successo dei modelli che favoriscono i maschi bianchi eterosessuali. Ma questo modello comporta, volendo, un'amante. Non una separazione.

A me, cittadino russo, non importano poi tanto le questioni politiche, a meno che non abbiano conseguenze dirette su ciò che è mio, e bisogna ammettere che Putin è stato effettivamente colui che ha fatto partire la ripresa economica del paese, per cui stiamo tutti un po' meglio. Lui a me ci tiene. I “Gastarbeiter”, i lavoratori caucasici sottopagati e spesso senza documenti in regola, che vengono ostracizzati da quasi tutta la società bianca, i gay, costantemente minacciati e terrorizzati dalla sfera pubblica e privata, le donne vittime di violenza, i beneficiari delle ONG la cui sopravvivenza è resa sempre più difficile, i prigionieri politici, tutte queste persone vivono in mondi estremamente lontani ed estranei al mio. Ma il divorzio, invece, lo sento, mi è vicino. 
È una cosa che non si fa.

E se divorzia lui, delude un impero intero. 


Giulia McNope






mercoledì, giugno 19, 2013

Ogni parco è Gezi Park.



Oggi a Istanbul splende il sole. Tutto procede come sempre: i pescatori sul ponte del corno d'oro, i kebabbari affaccendati infilzano la carne nello spiedo, i commessi puliscono le vetrine dei loro negozi, i senza tetto dormono su un suolo ormai privato delle sue mattonelle e i venditori di strada all’angolo attendono sperando che sia rivoluzione: non hanno ancora venduto tutti gli elmetti e le mascherine anti-gas. Tutto sembra essersi normalizzato, questa città sorprende sempre per la velocità con cui tutto accade.
Solo pochi giorni fa: barricate, nuvole di fumo, slogan assordanti che rimbombano tra i palazzi, pugni in alto, grida, e poi soldatini in assetto antisommossa che sparano lacrimogeni e spray urticanti ad altezza uomo, proiettili di gomma, mezzi blindati di ogni taglia che scagliano la loro potenza sul corpo dei  manifestanti armati solo di rabbia. È la rabbia di chi vede i propri diritti calpestati, di chi subisce l’arroganza di un governo autoritario e della sua feroce polizia sproporzionatamente violenta.




Tutto comincia con un piccolissimo parco nel cuore di Taksim e la volontà di pochi ambientalisti di salvarlo dall’inesorabile “rinnovo urbano”. Uno spazio verde, un luogo d’incontro, un bene comune che rischia di dover fare spazio alla logica del profitto e arrendersi alla trasformazione di tutto il quartiere in un immenso centro commerciale, una sorta di parco attrazioni per i turisti che affollano sempre di più le vie del centro.

Peccato che quel quartiere abbia un’identità difficile da cancellare. Piazza Taksim, situata di fronte al parco, è il luogo simbolo del dissenso politico. Da sempre, gruppi politici di svariate tendenze, usano quello spazio per dare visibilità alle proprie rivendicazioni. Nel 1977, in quella stessa piazza, circa 40 militanti di sinistra sono stati uccisi mentre festeggiavano il primo maggio. Distruggere Gezi Park e piazza Taksim vuol dire anche cercare di eliminare l’emblema delle lotte politiche della storia repubblicana. 


Ecco perché una causa ecologista è riuscita a mobilitare tutta la città e, qualche giorno dopo, tutta la nazione. I manifestanti chiedono di poter essere parte attiva nei processi decisionali che riguardano lo spazio che abitano e si rifiutano di  abbassare ancora una volta la testa di fronte al tentativo del governo di sradicare, insieme agli alberi, la storia e l’identità dello spazio urbano.
Molti hanno visto nelle manifestazioni di queste settimane uno scontro tra le forze laiche e islamiste del paese. Si è parlato tanto delle proposte per limitare la vendita di alcolici e delle pillole del giorno dopo e di come queste abbiano mobilitato molti giovani a scendere in strada.

Questa però è solo una delle dimensioni della protesta. L’immagine dei Musulmani Anticapitalisti che organizzano la preghiera del venerdì sotto la pioggia tra le tende di Gezi Park, con i militanti dell’estrema sinistra al loro fianco che reggono gli ombrelli, potrebbe completamente ribaltare questa prospettiva.



Prima dell’ultimo e (per il momento) definitivo sgombero, il parco Gezi era diventato un laboratorio di cittadinanza attiva che univa gruppi con orientamenti estremamente diversi che avevano finalmente trovato uno spazio per sfogare tutto il dissenso accumulato negli ultimi 11 anni di governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), guidato dal carismatico Recep Tayıp Erdoğan, conservatore, islamista moderato nella retorica e neoliberista nella pratica. Lui, paladino della democrazia durante le rivolte arabe, viene messo in discussione da un’ondata di protesta che non accenna a fermarsi nonostante i toni intimidatori, la repressione brutale, gli innumerevoli arresti sommari  e la costante demonizzazione dei manifestanti attraverso i media main stream.

Di certo non è la prima volta che una città turca si trasforma in terreno di guerrilla urbana, i curdi ne avrebbero tante di storie simili, vivono questa repressione da sempre. Tuttavia il centro delle loro proteste è Dıyarbakır, città curda lontana dai riflettori e dal turismo di massa nota alla cronaca per tali eventi e considerata da molti turchi un “covo di terroristi”. Sicuramente molti turchi che stanno vivendo in prima persona gli eventi di questi giorni, riconsidereranno la legittimità con cui la politica, in base ai propri interessi, attacca l’etichetta di terrorista a questo o quel gruppo. Oggi anche loro se la vedono appiccicare da Erdoğan e dal prefetto di Istanbul.



I protagonisti di questi giorni sono militanti della sinistra radicale, ataturkisti, ultras delle tre più importanti squadre di calcio della città, membri di associazioni della società civile, medici, avvocati, architetti e gente comune che per la prima volta –armata di elmetto di plastica, occhialini da piscina e mascherina da chirurgo – si trova coinvolta negli scontri con la polizia. 



Ieri, al ventunesimo giorno di resistenza, con piazza Taksim e Gezi Park completamente militarizzati, è continuata la protesta silenziosa  iniziata dall’artista Erdem Gunduz. La resistenza dell' “uomo che sta in piedi”si è propagata anche in tante altre città. Inoltre tutti i gruppi che fanno parte della piattaforma di sostegno a Taksim e che hanno animato fino a oggi le manifestazioni,  si sono riuniti in assemblea in dieci parchi sparsi per tutta la città, con la stessa energia e entusiasmo dei primi giorni,  perché, così come promettono gli slogan:“questo è solo l’inizio, la lotta continua!”.

Caterina McSakin

lunedì, giugno 17, 2013

Mar del Plata.




Loro lo sapevano bene quello che c'era da fare, sua eccellenza Videla lo aveva giudiziosamente promesso il giorno in cui era salito al trono: prima elimineremo i sovversivi, poi i loro amici e infine gli indecisi.

Il libro di Claudio Fava, Mar del Plata (add editore), ha la stessa velocità d'azione del rugby, uno sport che non concede tempi morti, dove conta la forza fisica, certo, ma più di tutto contano le gambe e l'occhio pronto a cercare il compagno. Il Club La Plata sta lottando per vincere il campionato. Il suo allenatore, Hugo Passarella, è molto severo coi propri giocatori, ostenta un pessimismo che però non convince i ragazzi seduti nello spogliatoio. Il pacchetto è bello solido e l'intesa che si è creata è quella di un team che non può essere fermato facilmente. Ma siamo in Argentina, proprio nel momento in cui il processo di riorganizzazione nazionale di Jorge Videla sta mostrando tutta la sua ferocia.
Il Mono tornò due giorni dopo. Con le mani legate dietro la schiena da due giri di filo di ferro e un buco nella nuca grosso come una noce. Tornò a galla, sulle acque sporche del Rio de la Plata, dopo che le pietre che gli avevano infilato in tasca s'erano ormai perse in fondo al fiume.
La sfida al potere omicida dello stato si trasforma in una resistenza ostinata. Per onorare la memoria di Javier Moretti, detto il Mono, la squadra di Mar del Plata chiede di poter osservare un minuto di silenzio durante una partita. Dopo il fischio dell'arbitro, passati i sessanta secondi, nessuno si muove, con la sensazione che un minuto non basti e che quei momenti sospesi non siano dedicati ad un solo ragazzo, ma a tutto un paese che si sta autodistruggendo, sterminando una generazione. 

Di minuti ne passarono dieci. L'affronto fu intollerabile.

Il libro di Claudio Fava si basa sulla storia vera del Club. L'eliminazione dei giocatori del La Plata era diventata una questione di principio, uno dei tanti momenti per mostrare il polso duro del "nuovo ordine" che si stava ristabilendo nel paese, morto dopo morto. 

Nelle geografie del terrore, ci sono sempre dei luoghi che diventano simboli della malvagità e della repressione. L'ESMA, (La Escuela de Mecánica de la Armada ) fa sicuramente parte di questi. Tra il 1976 e il 1983, l'ESMA fu il centro di detenzione e tortura per migliaia di persone, una vera e propria anticamera della morte da cui pochissimi sono usciti vivi. Ed è proprio lì che avviene l'incontro tra l'ufficiale Montonero, incaricato di sorvegliare i ragazzi del La Plata, e il suo superiore, il colonnello Benavides. Due burocrati uniti dallo zelante mandato di cui si fa carico chi non sa disobbedire agli ordini ed esegue senza chiedere spiegazioni, senza dubitare del proprio operato. Saranno loro i personaggi a cui Claudio Fava farà rappresentare la brutalità del regime.


Ernesto Sabato, famoso scrittore argentino e presidente della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas, istituita dopo la caduta del regime di Videla, disse che i ragazzi dei club rugbistici furono bersagli molto più vulnerabili rispetto a quelli dei club calcistici. Col mundialito alle porte e tutta l'attenzione internazionale rivolta verso l'Argentina, azioni di repressione nei confronti dei calciatori avrebbero suscitato molto più clamore. Il Club La Plata era formato da diversi ragazzi che frequentavano l'università, alcuni di loro avevano aderito a gruppi studenteschi, ma la regola del sospetto non faceva troppe distinzioni e l'omicidio di stato poteva raggiungere chiunque. E così accadde.



Tra il 1975 e il 1978 quasi venti ragazzi della squadra furono fatti sparire. Questi i loro nomi: Santiago Sánchez Viamonte, Mariano Montequín, Otilio Pascua, Hernán Rocca, Pablo Balut, Jorge Moura, Rodolfo Axat, Alfredo Reboredo, Luis Munitis, Jorge Copello, Marcelo Bettini, Abel Vigo Comas, Eduardo Navajas, Mario Mercader, Pablo del Rivero, Enrique Sierra, Julio Álvarez, Hugo Lavalle.


Guardando sul sito ufficiale del club tra le sezioni dedicate alla storia della squadra, alla sua filosofia e agli eventi che scandiscono il calendario, non ho trovato nessun riferimento ai fatti degli anni '70. Eppure nella lista dei capitani inserita sulla pagina web c'è il nome di Mariano Montequin, uno dei primi giocatori ad essere eliminato dal regime. 

Poco tempo fa, in una trasmissione chiamata Pensándonos a Nosotros Mismos, Rual Barandiaran, giocatore del La Plata Rugby sopravvissuto all'annientamento, è intervenuto per raccontare la storia del club e dei compagni uccisi dal terrorismo di stato. Nel 2006 è stata posizionata una targa commemorativa nello stadio dove si allena la squadra, ma Raul lascia trasparire una certa insoddisfazione. Questo piccolo simbolo, arrivato molti anni dopo la fine della dittatura, non è collocato in modo da essere particolarmente visibile. L'intervistatore, Ricardo Martínez, ha elencato tutti i diciotto nomi, lentamente, fermandosi su ognuno per specificare qualche dettaglio sulla vita, tra cui l'età al momento della sparizione. La sensazione è che sia ancora molto problematico poter parlare di quel periodo, nonostante i processi e il trascorrere del tempo. 

Questa stagione vede il Club La Plata al secondo posto della classifica del campionato di rugby argentino, con pochissimi punti di distacco dalla prima. Chissà in quanti sperano nella vittoria del club che vide la propria squadra annientata dal terrorismo di stato. Forse, anche stavolta, nell'anno in cui Jorge Videla è morto, un senso di rivincita guiderà i giocatori. 


Altri articoli dedicati al libro di Claudio Fava e alla storia dei giocatori del La Plata Rugby:
http://libridibordo.noblogs.org/post/2013/05/20/mar-del-plata/
http://www.lindiceonline.com/index.php/60-l-indice/maggio-2013/719-farli-sparire-tutti

Alessio MacFlynn