mercoledì, dicembre 30, 2015

Neujahrskonzert.



Ricordo un Capodanno trascorso nascosto in corridoio, da solo, al buio, con una bottiglia di spumante Gancia trovata dentro l'armadio dei piatti che non usiamo. Stavo lì in corridoio perché avevo paura che dalla finestra dei vicini partisse un razzo, un fuoco d'artificio, e spaccasse la finestra. Dove lo vai a trovare uno che te la mette a posto, una finestra, il primo di gennaio? Devi rimediare col nastro e il cartone, col rischio di tagliarti un dito e finire al pronto soccorso ad aspettare che ti chiamino e nell'attesa parlare con qualcuno che si è fatto male coi fuochi d’artificio, magari proprio un tizio che ha sparato un razzo e accidentalmente ha colpito una finestra. Però ecco, forse non era questa la mia paura. Non per tutte queste conseguenze, il vetro, il pronto soccorso… Avevo paura di quella gente lì, che faceva festa in balcone a pochi metri dalla mia finestra e sparava petardi contro le case. Uno di loro, uno sobrio, avrebbe chiamato ad alta voce temendo che scoppiasse un incendio, avrebbero suonato al campanello senza avere risposta, telefonato ai vigili con tutto il casino dei botti e, forse, qualcuno sarebbe entrato in casa forzando la serratura per spegnere l'incendio. E avrebbe trovato me, da solo in corridoio, con lo spumante Gancia vecchio di non si sa quanto. 

Il primo dell'anno lo zio Marino era sempre seduto a capotavola, aveva la responsabilità di assaggiare il primo tortellino del pranzo. Doveva dire se era giusto di sale. “Noi ci mettiamo la noce moscata,” diceva la zia, “a casa vostra non si usa”. Di lavoro lo zio Marino faceva l’addetto tecnico ai servizi di riparazione caldaie. Di questo suo mestiere io avevo un’immagine molto nitida, che risaliva a un’estate in cui in casa nostra c’era stato un problema con le condutture e avevamo chiesto allo zio Marino di venire a vedere. Accucciato sotto al lavandino apriva e richiudeva, girava manopole e lasciava cadere gli attrezzi, c’era solo il suono di quelle brugole che tintinnavano e il suo fiato che si appesantiva per lo sforzo e per il caldo. Una volta riparato quello che c’era da riparare, lo zio era stato congedato come se quel lavoro lì, dello stare chinato sotto al lavandino, fosse stato un incidente di percorso, come se avessimo scomodato un primario di chirurgia per un raffreddore del cane. Eppure lo zio non sembrava dar peso a questa cerimonia di imbarazzi e ringraziamenti, anzi, rivolgendosi a me aveva detto che se fosse capitato nuovamente quel problema sarei stato in grado di pensarci io, dato che per tutto il tempo l’avevo assistito. Una responsabilità che periodicamente mi ha costretto, di nascosto, a controllare che non ci fossero perdite in cucina.

A Capodanno succedeva che lo zio Marino si assentasse per vedere il concerto, quel gran concerto che davano alla televisione ogni primo dell'anno. Si accomodava nello studio dove tenevano i libri dei nonni, sistemandosi con le pantofole sul tavolo. Io lo seguivo facendo finta di passare davanti alla porta per caso o per andare in bagno, lui con la mano batteva sui cuscini per lasciarmi intendere di entrare e chiudere.
Lo zio aveva due telecomandi sul tavolino, uno per il registratore e uno per il volume del televisore. Il concerto iniziava con quella musica pomposa e le stelle gialle su fondo blu che si disponevano in cerchio. “È il Te Deum di Charpentier," diceva lo zio, "trasmettono questa sigla quando sono in diretta su tutte le televisioni d’Europa”. Poi la commentatrice iniziava a snocciolare la lunga biografia del compositore, si soffermava su aspetti tecnici dell'orchestra continuando a raccontare quelle tappe con un tono di voce che suggeriva l’ovvietà di certe informazioni, sicura che ogni ascoltatore avrebbe colto le sue parole. Io cercavo di non mostrarmi impreparato. Se a sentire il nome del maestro che avrebbe diretto il concerto lo zio commentava con un profondo “Bah!” calcato nel petto, gli angoli della mia bocca tendevano all’ingiù per rafforzare il suo “Bah!”. Oppure, quando in qualche rarissimo caso lo sentivo esclamare “Un gigante!”, automaticamente le mie sopracciglia si alzavano verso la cima della fronte, imitando la meraviglia di chi si trova perfettamente d’accordo con l’esclamazione “Un gigante!”. Lui non mi guardava, ma sapevo che era importante che lo facessi, che la mia approvazione seguisse le sue parole.

Poi lo zio si metteva curvo sul tavolino, con uno scatto afferrava entrambi i telecomandi alzando il volume al massimo con una mano e con l'altra registrava i secondi di silenzio prima che il direttore abbassasse la bacchetta e l'orchestra attaccasse a suonare. Era una gara, perché lo zio si definiva un intenditore coltissimo di musica classica e opera. Sosteneva di non aver mai voluto frequentare l'accademia perché al conservatorio la disciplina è troppo rigida e gli orchestrali, quando non suonano in un’orchestra e sono costretti a dare prova prova del proprio talento, magari una sera che tornano a casa dalle prove e hanno degli ospiti a sorpresa che chiedono di sentire qualcosa, quegli orchestrali non sono poi così bravi quando suonano da soli. “Troppo rigide le accademie, poca fantasia a briglia sciolta” (non avevo idea di cosa fosse una briglia sciolta, per tanti anni ho creduto che lo zio non riuscisse a pronunciare bene la parola “biglia”. Una biglia sciolta, libera dalle altre, evasa dal sacchetto). Dopo che lo zio aveva registrato quei secondi continuava a guardare il concerto, dimenticandosi del resto della famiglia che continuava a soffiare sul brodo in attesa del suo arrivo a tavola.

Mio zio Marino è morto già tanti anni fa, è morto quando ero fuori all'estero e non ho potuto andare al funerale, mi è dispiaciuto non averlo salutato. Quando due mesi dopo sono andato a casa sua per fare le condoglianze a mio cugino, sono tornato in quello studio. Ho cercato la cassetta per un quarto d'ora nell’armadio dei dischi, poi ho pensato che poteva essere rimasta infilata nel registratore. L'ho mandata indietro col tasto del rewind e l'ho guardata. In quel momento è entrato mio cugino, che di questa roba non sapeva niente e gli ho detto "Sono i silenzi dello zio." La cassetta durava pochissimo, c’erano forse una ventina di concerti registrati, uno per ogni anno. “In che anno avrà iniziato?” mi ha chiesto mio cugino. Nello studio si sentiva un colpo di tosse che proveniva dal teatro austriaco, qualche poltroncina che scricchiolava, piccolissimi suoni di legno e respiri trattenuti. L’abbiamo riguardata altre due volte.



Adesso quella cassetta ce l'ho qui a casa, è il mio ricordo dello zio. Mi piacerebbe invitare qualcuno per vedere quella cassetta il primo dell'anno, ma si annoierebbe senza dubbio, visto che non suonano mai. Quelle facce concentrate giusto un attimo prima dell'esibizione e poi niente, un'altra e poi un'altra, un silenzio da grande sala d’aspetto, una di quelle dove ci si ritrova per sbaglio l'ultimo dell'anno, da soli, con un vetro infilato nel dito.


venerdì, dicembre 04, 2015

Storia di un orso.


L’orso si chiamava Demetrio Pagliari. Aveva trascorso diversi anni in Germania lavorando come impresario per una ditta che riforniva i medici di apparecchiature per gli impianti dentali. L’orso, o meglio, la pelliccia da orso, era il motivo del suo ritorno in Italia. Un certo Tintori gli aveva chiesto di comprarla, come favore per poter tirare su qualche marco. Dopo la fine della guerra, Tintori era rimasto in Germania a fare la mascotte fuori dalle vetrine di alcuni negozi. Diceva che di pellicce di orso così belle non se ne trovavano. La testa e il muso non avevano neanche un graffio, i fori per gli occhi erano stati nascosti con molta abilità e si riusciva a respirare senza fare fatica. Demetrio, che era uno sempre in giro con la sua borsa di rappresentanza, non sapeva cosa farsene di quell’orso, alle insistenze di Tintori diceva: “Che me ne faccio di un costume da orso? Dove lo metto?”. Tintori gli stava chiedendo un favore, voleva andarsene via da quel paese, voleva mettere da parte i soldi per tornare a casa dalla famiglia. 

Pagliari aveva già fatto dei favori per alcuni connazionali, aiutandoli a trovare lavoro in qualche ristorante o registrandoli negli uffici per le liste di collocamento. Da una signora partita dalle Marche aveva comprato delle enciclopedie, riempiendo un intero scaffale della libreria che teneva in casa. La pelliccia d’orso gli avrebbe occupato mezzo armadio e la testa avrebbe dovuto inchiodarla a una parete, trasformando il monolocale al quarto piano nella baita di un cacciatore artico. “Tu fai così perché non l’hai provata,” diceva Tintori prendendo Pagliari per un braccio, “te la faccio provare, ti ci infili dentro e mi dici per curiosità come ti sembra. Per curiosità, che ti costa?” 

Tintori era arrivato con una valigia e una sacca a tracolla: l’orso era lì, nell’appartamento di Pagliari, per essere indossato. Il rappresentante si era lasciato convincere. Se avesse soddisfatto la curiosità di Tintori, mostrandogli la mancanza di spazio nella casa, sarebbe stato molto più facile chiudere lì quella discussione. Per l’occasione, Pagliari aveva occupato tutte le stampelle del suo armadio con maglioni e camicie che di solito teneva nei due cassetti sotto al comodino. “Sta comodo comodo in una valigia”, diceva Tintori, “apri la sacca, non ti spaventare. Sembra vivo per quanto è fatto bene, ma t’assicuro che non morde.” 

Pagliari non era mica spaventato, lasciò comunque che fosse Tintori a trafficare con quella roba. Disse al rappresentante di togliersi la giacca e i pantaloni, poteva tenere le scarpe e una camicia comoda, magari vecchia. A Pagliari la cosa non diede problemi e non si vergognò di restare in mutande. La chiusura era sulla schiena, ci voleva per forza una seconda persona che tirasse su la cerniera. Le mani di Pagliari erano diventate delle zampe senza unghie, tutto il corpo come dentro un sacco a pelo. “Ma uno specchio non ce l’hai?” Questa domanda diede al padrone di casa la scusa per aprire l’armadio, dove lo specchio era fissato a un’anta. “Vedi che c’ho tutto pieno? Dove me la metto ’sta sorta di pelliccia?” Con le zampe ancora aperte, Pagliari aveva visto dallo specchio che Tintori stava calando la testa dell’orso sulla sua. Per non tradire un piccolo spavento che gli era preso vedendo le zanne dell’orso riflesse davanti a sé, aveva cominciato a ridere. E mentre Tintori gli faceva passare la maschera sulle orecchie, Pagliari rideva più forte, nel buio e nel caldo in cui si stava immergendo. 

Guardando quella bestia libera nel suo appartamento, Pagliari aveva iniziato a fare delle mosse e dei versi. “Mica fanno così gli orsi, quelli sono gli orangotanghi, l’orso mica fa così!” Tintori lo rimproverava e lo scuoteva, Pagliari faceva delle giravolte e cercava di accontentare il nuovo padrone. Si piegò a quattro zampe per cercare di imitare una posa verosimile, ma la testa non permetteva nessun movimento verso l’alto. Chiese solo una volta a Tintori di aiutarlo a rialzarsi, prima di sentire un fortissimo dolore in testa e cadere svenuto sul pavimento.

Si svegliò che era già buio, Tintori s’era portato via tutto, pure i vestiti, costringendolo a uscire sul pianerottolo con addosso la pelliccia. La botta gliel’aveva data con un volume dell’enciclopedia, tomo A-C.

Pagliari ci aveva rimuginato non poco, prima di accettare l’eredità di quell’orso.

Sembrava, a Demetrio Pagliari, che il ritorno a casa fosse segnato già da tempo. Qualcuno aveva esaudito una richiesta mai espressa a parole, un desiderio nato e cresciuto solo nei suoi pensieri. Quel qualcuno era stato Tintori, chissà se era davvero tornato anche lui in Italia. 

Era già primavera sul piazzale della stazione di Ravenna, Demetrio Pagliari percorse la strada verso la casa dei suoi genitori, dove il fratello era rimasto a vivere. Aveva esaurito la storia di quel ritorno durante l’ora di cena, cercando di intuire dallo sguardo del fratello quanto a lungo avrebbe gradito la sua compagnia. “Farò le mie cose senza darti disturbo, devo solo riadattarmi. Augusto lavora ancora lì dai preti? E allora chiedo a lui, mi deve ancora un sacco di favori, sicuro che mi prende.” Augusto era un amico di scuola di Demetrio, ma di lavoro da offrire proprio non ne aveva. 

Ci moriva di caldo. Quando era ora di pranzo si chiudeva nella cabina del lido, con una cordicella tirava giù la cerniera e sfilava la pelliccia lasciandola cadere per terra impregnata di sudore. Su tutto il corpo gli erano comparse delle macchie rosse, la pelle si era impregnata dell’odore di muffa che la pelliccia si portava dietro. In una mattina di spiaggia poco affollata, riusciva a comparire in almeno trenta fotografie. Doveva camminare lungo la spiaggia per farsi vedere dai nuovi villeggianti e attirare i bambini. 

Assieme a lui veniva il ragazzo del bar Stefanini, Lello, che aveva una passione per le macchine fotografiche e stampava i rullini da solo. Non erano solo i bambini, certe volte anche le signore del lido sghignazzavano di fronte alle pose dell’orso. Demetrio le intratteneva mentre parlavano sedute sotto gli ombrelloni, stappava le bottigliette usando i denti del muso finto, giocava con la sabbia provocando i cani che gli abbaiavano contro. Una combriccola di villeggianti austriaci aveva raccontato a Demetrio che da loro c’erano molti orsi che si facevano fotografare, però preferivano intrattenere i turisti della montagna. Un orso sulla spiaggia non l’avevano mai visto. 


La stagione dell’orso sulla spiaggia era durata solo un’estate. Alla fine di settembre Demetrio aveva lasciato la casa del fratello per tornare in Germania, dove poi sarebbe rimasto per tutta la vita. 

La storia di Pagliari me l’ha raccontata Lello, quello del bar Stefanini. Dietro alla foto c’è scritto “Pietro e Giovanni,  28 giugno 1963.” A Lello è rimasta solo questa, probabilmente i due bimbi erano ripartiti con la famiglia il giorno dopo, dimenticandosi di passare al bar per ritirarla. 

“Per fortuna facevamo sempre pagare in anticipo,” mi ha detto Lello quando me l’ha regalata. 










venerdì, novembre 27, 2015

Atlante delle micronazioni.





Ce n'è una che ha come inno nazionale il suono di un sasso gettato nell'acqua. Un'altra vanta il capezzolo come valuta ufficiale. Un'altra ancora si definisce "repubblica marinara di montagna". Sono abitate da poche centinaia di persone, certe volte completamente disabitate. Sono le micronazioni che compongono l'Atlante di Graziano Graziani, pubblicato da Quodlibet.

Perché fondare una nazione in piccolo? Capita che le micronazioni nascano con intenti molto differenti, sguardi utopici di una nuova libertà e di un'indipendenza alternativa. Ma anche esempi di resistenza all'ottusità dei governi o semplici tentativi di arginare le leggi statali.

Il viaggio tra le micronazioni inizia con l'Impero degli Stati Uniti, primo e storico esempio citato nell'Atlante. Fondato da Joshua Norton il 17 settembre del 1859, l'impero non era altro che il tentativo di dare agli Stati Uniti d'America un nuovo ordine incentrato sul ripristino della legalità e il recupero dell'integrità della nazione. Ovviamente, i cittadini americani erano totalmente inconsapevoli di questa nuova struttura politica annunciata da Norton. Eppure, nella città di San Francisco, dove il primo imperatore viveva all'epoca, la considerazione verso la sua figura era molto alta. Non potendo davvero ambire al ruolo che rivendicava, Norton I si impegnava nel sanare piccoli e grandi screzi tra i suoi sudditi. I ristoranti della città gli permettevano di mangiare gratuitamente e i suoi proclami trovavano spazio nei giornali locali. Le avventure di Norton ebbero una risonanza tale da colpire l'attenzione di scrittori del calibro di Mark Twain e Robert Louis Stevenson.



Joshua Norton
La storia di Norton è inserita nella prima delle undici sezioni dell'Atlante, composto da paesi nati per autoproclamazioni, azioni di protesta o rivolte a contrastare l'autorità. A queste si aggiungono quelle che sono nate per ospitare comunità di artisti. Nel libro, ad esempio, compaiono la repubblica di Frigolandia, fondata da Vincenzo Sparagna, e la Libera repubblica di Alcatraz, fondata da Jacopo Fo. Nel 1982 Andrea Pazienza (nella foto assieme a Tanino Liberatore, José Muñoz, Massimo Semerano e un giovanissimo Gipi) fu ospite dell'università per tenere un corso di fumetto. In un articolo apparso su Fumettologica, Gipi ha raccontato quel periodo:

"Incontrare dei disegnatori “veri” per me che venivo dalla mia panchina tra gli sputi fu una rivelazione. Esistevano persone che erano davvero dei disegnatori. Gente che viveva di storie da disegnare e raccontare. Esisteva quella forma di vita. Era possibile. Ora sembra una stupidaggine, ma questa specie di verbo in carne fu per me una illuminazione. I ricordi sono confusi poi. Lontanissimi. Mi resta in mente il fascino di Pazienza quando parlava e la paura che mi faceva Scòzzari mentre girava intorno al tavolo." 

(dalla pagina Facebook di Gipi)
La provocazione artistica si inserisce come "casus belli" alternativo, molte micronazioni nascono proprio grazie a una dichiarazione di guerra simbolica da parte di pacifici separatisti. Ne sono un esempio la città di Christiania, a Copenaghen, o la repubblica di Užupis, nata nell'omonimo quartiere storico di Vilnius grazie a Romas Lileikis e Saulius Paukstys, fondatore del Frank Zappa Club lituano. La piccola repubblica può vantare una Costituzione di 41 articoli, di cui vale la pena citarne alcuni:

32. Ognuno è responsabile della propria libertà.
33. Tutti hanno il diritto di piangere.
34. Tutti hanno il diritto di essere fraintesi.
35. Nessuno ha il diritto di far sentire in colpa un'altra persona.
36. Tutti hanno il diritto di essere unici.


Užupis - Monumento a Frank Zappa
Altre volte sono proprio le opere d'arte a costituire il territorio dei nascenti stati. È il caso del principato di Ladonia, monarchia costituzionale scandinava, ideata da Lars Vilks. Le città che compongono questo particolarissimo regno non sono altro che due sculture. Nimis, fondata nel 1980, è sorta grazie all'accatastamento di tantissimi pezzi di legno, disposti a formare delle inquietanti torri sul mare. La città sorella di Nimis, Arx, è stata realizzata con pietre e cemento. Secondo il progetto di Vilks, Arx è un mastodontico libro di 352 pagine "impossibili da girare".


Nimis
Nell'introduzione al libro, Graziani riflette sulla definizione di Stato e di micronazione: "Cos'è davvero in grado di decidere cosa sia uno Stato? Le convenzioni. Certo, popoli, cultura e tradizioni giocano un ruolo importante, ma non sono sempre decisivi, se è vero che popoli come i curdi, i rom e i saharawi non hanno un loro stato. (...) In definitiva ciò che rende uno Stato riconoscibile come tale è il fatto che noi accettiamo, in un modo o nell'altro, che esso esista. E che assieme a noi qualcun altro, Stato o singolo individuo, cominci a fare altrettanto." 

Ci si accorge, sfogliando l'Atlante, di avere tra le mani una mappa sulle diverse concezioni di confini, cittadinanza e territorio, lontana dagli slogan a cui siamo abituati, un punto di partenza per una ricerca sui nostri limiti. 













venerdì, ottobre 30, 2015

Agota Kristof, Trilogia della città di K.





Per raccontare un libro come Trilogia della città di K. verrebbe da tirare in ballo una citazione presa da Lessico Famigliare, di Natalia Ginzburg: Le poesie erano dunque così: semplici, fatte di niente; fatte delle cose che si guardavano.

Trilogia della città di K. è un libro pieno di cose semplici, di azioni, che sembrano fatte di niente. Un libro pensato e scritto nella lingua dei bambini, una lingua che si scopre lentamente e si costruisce in modo ruvido e scarno. Per inventare questa lingua, Agota Kristof ha dovuto dimenticare la sua e usarne una che non padroneggiava. Una sensazione di smarrimento che immediatamente ribalta le posizioni, un'esperienza che forse si prova solo da bambini o quando si è costretti a fuggire per cercare rifugio in un paese che non è il nostro.

Sono trascorsi ottant'anni dalla nascita di Agota Kristof. In questa registrazione del 1989, l'autrice legge alcuni estratti da Il grande quaderno, il primo libro della Trilogia della città di K. Tre anni dopo sarebbe stato pubblicato il volume che avrebbe chiuso il ciclo narrativo. La traduzione è di Armando Marchi (Einaudi).














giovedì, luglio 09, 2015

Raffaello Baldini - L'estate


Poi verrà l'estate,
che non si fa mai notte, e dentro le case, nell'ombra,
gli armadi sembrano fantasmi,
le chiavi ballano nelle tasche, i ragni
hanno una pazienza, l'acqua fa il taso,
un bambino su uno scalino schiaccia i noccioli
per il croccante, nell'orto la mattina luccicano
le strisce delle lumache,
che cosa bruciano laggiù?
ma guarda quella rondine dove ha fatto il nido,
che bei gerani, il figlio di Baròcc ci dà
con quel violino, i gatti hanno le schiene sottili
come coltelli, all'Arco
un forestiero con un berrettino bianco domanda
per andare a San Leo, - al caffè parlano di Alvaro,
"Fosse stato il sinistro", "Per quanto adesso gli viene
una bella pensione", "Ma senza un braccio",
"Meglio un braccio che una gamba", "Non lo so mica",
"Va' là, due gambe buone", "Se devi correre,
ma nuotare, piantare un chiodo, tirare con la doppietta",
"Perché, andava a caccia?", "Si fa per dire,
anche pulirsi il sedere", - le due Bagiagia
vanno su al Passeggio a prendere il gelato,
"Vi mando tutti in galera!", litigano in piazza?
no, senti, ridono,
sotto i portici Zanini e il cavaliere
vanno su e giù, mani di dietro, parlano fitto,
la notte è un teatro, dalla Rocca 
si vede il mondo, Rimini, Cesenatico, Cervia,
poi a casa, a letto, solo col lenzuolo, e lei,
nuda anche lei, che pare dorma, invece,
piano, con un piede, ti fa segno.

Raffaello Baldini, L'instèda (L'estate) da La nàiva. Furistír. Ciacri

 

lunedì, maggio 25, 2015

Towel Day

Douglas Adams e Steve Meretzky


L'unica risposta che troverete oggi alle vostre domande è questa:




E, se volete, potete anche scoprire a cosa serve un asciugamano nello spazio





domenica, maggio 24, 2015

Dylan Skyline


"Non sono certa di poter distinguere la smemoratezza bella di chi si abbandona al presente sino a perdere la facoltà di possederlo come ricordo, dalla smemoratezza che spazza via tutto ciò che è troppo brutto o complicato."
Helena Janeczek - Just Like a Little Girl

Il mese scorso è uscita per Nutrimenti una raccolta intitolata "Dylan Skyline". Questo skyline ritaglia uno spazio di cielo, ogni racconto prova a inserirsi in un cantiere narrativo infinito che si chiama Bob Dylan. Non si tratta di aggiungere, ma di scoprire in quanti modi diversi questo personaggio è arrivato a contaminare l'immaginario di così tante persone. Come nell'antica fiaba, un elefante viene presentato al cospetto di sei ciechi, incaricati di descrivere l'animale al re di turno. Ognuno si concentra su una parte sola del pachiderma, convinto di riconoscere quello che ha toccato: le zampe sono colonne, la coda una fune, la proboscide un ramo. Solo mettendo insieme tutte queste sensazioni, forse, si può arrivare a capire la forma dell'animale. 

Nell'anatomia di questo libro si possono trovare un fratello più grande tornato da Parigi nel cuore della notte, un palco che diventa campo di battaglia, un rapimento ad opera di fanatici dylaniati. Dodici autori per dodici racconti, ognuno con un carico diverso di colori e riferimenti. Quando la puntina scorre verso l'ultimo solco, sulle note di una ballad collettiva, ci si rende conto che le tessere di questo puzzle hanno disegnato una nuova linea nel proprio, personalissimo Dylan Skyline. Ed è bello scoprire che tra queste pagine si compie una stratificazione di tutte quelle immagini che hanno legato la nostra storia a quella di Dylan.

"Se c'era qualcosa che dovevo imparare da ragazzo, più che a scuola, l'ho imparato ascoltando la voce di Bob Dylan," ha detto una volta lo scrittore Daniele Benati. Per molto tempo ho pensato che l'effetto esercitato dalla potenza di Bob Dylan avesse i tratti di un'autorità invisibile. Poi qualcosa è cambiato, la percezione è sfumata di nuovo verso qualcosa di diverso, una percezione simile a una giusta intuizione, alla sensazione appagante di un'inspiegabile vicinanza tra le cose che ascoltavo e l'esattezza con cui riuscivano a ricomporsi nella mia mente. Dylan Skyline, con la sua polifonia, riesce a catturare questa intuizione, diventando uno stimolo per fare nuovamente i conti con il cielo. 
Non finisce mai.

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Hai presente quei libricini da Autogrill col giorno del tuo compleanno? Ecco, in casa ne avevamo tre, ognuno con la sua data. In fondo, tra le ultime pagine, c'era una Hall of Fame coi nomi dei personaggi più celebri nati proprio in quello stesso giorno. Il 24 maggio c'era Dylan. Il gioco delle cose in comune, vite minuscole paragonate alle vite dei "grandi", a tutti è scappato di farlo. Adesso, se proprio voglio fare uno sforzo, mi viene in mente che le analogie sono una buona scusa per pizzicare i ricordi. 

Mi ricordo un uomo che aveva deciso di cacciarsi nel petto un sogno, un sogno silenzioso, tanto visibile quanto negato. E poi ricordo un uomo che aveva deciso di cacciarsi nel petto un segreto, il suo segreto, lo scheletro di una maschera che forse non avrebbe mai lasciato cadere. Per prima cosa è stato l'uragano, la storia di un altro uomo, uno finito in prigione senza nessuna colpa. Conoscevo una storia molto simile, l'avevo vissuta e non avevo mai più dimenticato. Era la storia dell'uomo a cui era stato regalato il libricino "Nato il 24 maggio", lo stesso uomo che poi mi avrebbe regalato la chitarra su cui avrei suonato gli accordi dell'uragano. "Scriverò la tua canzone", gli avevo annunciato una volta in macchina. Lui diceva che se lo scenario fosse stato differente, se quei cognomi e quelle montagne avessero avuto un altro accento, la storia sarebbe diventata una sceneggiatura, un thriller da seconda serata. Potevo provare a scriverla, quella canzone, se ci tenevo. Non sono stato in grado.

Poi ho scordato tutto. Come quei due uomini nati lo stesso giorno, con dieci anni di differenza, avevo iniziato a cacciarmi nel petto un sogno e un segreto. Avrei incrociato nuovamente i loro sguardi, sovrapponendo quello del ragazzo di vent'anni condannato a essere un simbolo con la sua musica e quello di un uomo costretto a letto, col suo segreto ormai svelato e disteso al vento dei rancori. E per parlare del vento, tenevo sempre due armoniche in tasca, alternando le chiavi e incrociando le loro note in un addio. Tutto quello che sarebbe arrivato dopo, non ero pronto per quello. Seppellito il segreto e il sogno, avevo finito per seppellire anche la mia testa, lasciando che tutto il resto andasse a sbandare, prestando ascolto solo a un ritornello ossessivo: "Dovrai imparare per bene la tua canzone prima di iniziare a cantarla."

Ci si innamora degli spettri, delle loro bocche da cowboy, dei loro occhi malinconici. Ricordi accumulati su cartoline indirizzate agli scherzi del destino. È una storia, te la scrivo confusa come un sogno, ma so che hai capito. C'era anche una ragazza in questo sogno, una ragazza nata in primavera. Io, manco a dirlo, ero nato troppo tardi. Facevamo l'amore in macchina con Hard Rain. E poi mille sigarette accese a Milano, una notte intera ad ascoltare soltanto Bringing It All Back Home. Giacche di pelle e Isis.

"Se ci pensi lui appartiene proprio al sogno - a un sogno ormai collettivo, come ha capito Haynes - e nei sogni non c'è mai quel giudizio che lui sospende sempre, a favore delle storie." Quel 24 maggio me ne stavo seduto in un cimitero di provincia, rigirando tra le dita una fiaschetta che avevo deciso di portargli per inscenare un brindisi d'auguri. Non sarei più tornato a fargli visita, anche se non avrei mai più smesso di cercarlo. Risposte da nessuna parte, nel vento neanche a parlarne.


martedì, aprile 14, 2015

Seamus Heaney, una raccolta.

ritratto di Edward McGuire

And here is love 
like a tinsmith's scoop 
sunk past its gleam 
in the meal-bin.

Pubblichiamo una raccolta di video sottotitolati con alcune poesie lette da Seamus Heaney.



Raccogliendo more (Blackberry-Picking - For Philip Hobsbaum)

A fine agosto, dopo sette giorni
di pioggia fitta e sole, eran mature
le more. Una soltanto, prima, un grumo
lucido e viola in mezzo ad altre rosse,
verdi, dure come nodi.L'hai mangiata,
la polpa dolce come vino spesso:
aveva dentro il sangue dell'estate,
lasciava macchie sulla lingua e brama
di raccolta. E dopo che le rosse
anch'esse s'inzupparono d'inchiostro,
quella voracità ci spinse, armati
di vasi, di barattoli e lattine,
tra le spine dei rovi, in mezzo all'erba
bagnata che sbiancava gli scarponi.
Arrancando intorno a campi di patate,
fieno e granturco raccogliemmo
fino a riempire i nostri recipienti,
finché il fondo tintinnante fu coperto
di more verdi, mentre in cima grandi
bolle nere brillavano, e sembrava
un piatto d'occhi. Le mani eran pepate
di spine di rovo, i nostri palmi
appiccicosi come Barbablù.

Ammucchiammo le bacche nella stalla.
Ma quando la vasca fu riempita
trovammo che un fungo grigio-topo,
peloso, si pasceva del tesoro.
Anche il succo puzzava. Il frutto, tolto
dall'arbusto aveva fermentato,
la polpa dolce s'era inacidita.
Volevo piangere. Non era giusto
che tutto quel bel mucchio fosse marcio.
Ho poi sperato, anno dopo anno,
che resistesse, e, lo sapevo, invano.

Death of a Naturalist (1966) 
Traduzione di Gilberto Sacerdoti.





Seguace (Follower)

Mio padre lavorava con l'aratro a cavalli,
le spalle arrotondate una vela spiegata
tra le stegole e il solco.
I cavalli tiravano al suo schiocco di lingua.

Un esperto. Metteva in posizione il versoio
e inseriva la punta d'acciaio del vomere lucente.
Rotolava di lato la zolla senza rompersi.
In capo alla striscia, una sola tirata
di redini, la pariglia sudata si girava
tornava indietro nel campo. Lui stringeva
l'occhio e squadrava il terreno,
e faceva una mappa esatta del solco.

Io caracollavo nella sua scia chiodata,
cadevo qualche volta sulla lucida zolla;
qualche volta mi portava a cavalcioni in spalla
e andavo su e giù con il suo passo.
Volevo diventar grande per saper arare,
chiudere l'occhio, irrigidire il braccio.
Tutto quel che ho mai fatto era seguirlo
in giro per la fattoria nella sua grande ombra.

Ero un fastidio, inciampavo, cadevo in terra,
mugolavo continuamente. Ma oggi
è mio padre che continua a barcollarmi
dietro, e non se ne vuole andare.

Death of a Naturalist (1966) 
Traduzione di Francesca Romana Paci.





Mossbawn - Luce di sole (Mossbawn - Sunlight)


C'era un'assenza assolata.
La pompa a elmetto in cortile
riscaldava il suo ferro,
e l'acqua intiepidiva come miele

nella secchia sospesa,
e il sole stava
come una piastra messa a raffreddarsi
contro il muro di ognuno

di quei pomeriggi lunghissimi.
Le mani di lei trafficavano
sulla teglia da dolci,
e il forno si arrossava

rimandando una placca di calore
là dove lei, accanto alla finestra,
stava con il grembiule infarinato.

Ora spolvera il fondo della teglia
con una piuma d'oca, ora si siede
con le ginocchia divaricate,
e le unghie sono bianche,

le gambe venate di rosso:
c'è ancora spazio, qui,
e già la torta lievita
al ticchettìo di due pendole.

E qui c'è ancora amore,
un mestolo di stagno
affondato oltre il suo luccichìo
nel vaso di farina.

North (1975)
Traduzione di Roberto Sanesi.




  
Scavando (Digging)

Tra il mio pollice e l'indice s'acquatta
chiatta la penna: come una pistola.

Sotto la finestra, il raschio schietto
della vanga che affonda nella ghiaia:
è mio padre, scava. Guardo giù

finché la sua schiena tesa tra le aiuole
s'abbassa, e rimonta su vent'anni prima,
curvandosi ritmica tra i solchi di patate
dove scavava.

Lo stivalaccio s'annidava sulla staffa, il manico
bilanciato con fermezza contro l'interno del ginocchio.
Sradicava le cime alte, seppelliva fonda la lama lucida
per sparpagliare le patate novelle, che raccoglievamo
amando in mano la loro fredda durezza.

Perdio, il vecchio sapeva come maneggiare la vanga.
Proprio come il suo, di vecchio.

Mio nonno in un giorno cavava più torba
di chiunque altro alla torbiera di Toner.

Una volta gli portai il latte in una bottiglia
tappata lenta con un tappo di carta. Si rizzò
per bere, e subito ritornò
a tranciare, affettare preciso, lasciando le zolle
alle spalle, scendendo sempre più a fondo
per la torba più buona. Scavando.

L'odore gelido di muffa, il calpestio, lo sciabordio
di torba fradicia, i tagli secchi di lama che spacca
radici vive mi si risvegliano in testa.
Ma non ho vanga per seguire uomini come loro.

Tra il mio pollice e l'indice s'acquatta
chiatta la penna.
Scaverò con quella.

Death of a Naturalist (1966) 
Traduzione di Nadia Fusini.


 

lunedì, marzo 30, 2015

Due poesie di Wisława Szymborska.




Due poesie lette da Wisława Szymborska: Un amore felice (Miłość szczęśliwa) e 
Il gatto in un appartamento vuoto (Kot w pustym mieszkaniu).

Traduzione di Pietro Marchesani (Adelphi).


Un amore felice 






Un amore felice. È normale?
È serio? È utile?
Che se ne fa il mondo di due esseri
che non vedono il mondo?

Innalzati l'uno verso l'altro senza alcun merito,
i primi qualunque tra un milione, ma convinti
che doveva andare così - in premio di che? Di nulla;
la luce giunge da nessun luogo -
perché proprio su questi, e non su altri?
Ciò offende la giustizia? Si.
Ciò offende i princìpi accumulati con cura?
Butta giù la morale dal piedistallo? Si, infrange
                                                          e butta giù.

Guardate i due felici:
se almeno dissimulassero un po',
si fingessero depressi, confortando così gli amici!
Sentite come ridono - è un insulto.
In che lingua parlano - comprensibile all'apparenza.
E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,
quei bizzarri doveri reciproci che s'inventano -
sembra un complotto contro l'umanità!

È difficile immaginare dove si finirebbe
se il loro esempio fosse imitabile.
Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,
di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,
chi vorrebbe restare più nel cerchio?

Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come d'uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,
capita, in fondo, di rado.

Chi non conosce l'amore felice
dica pure che in nessun luogo esiste l'amore felice.

Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.




Il gatto in un appartamento vuoto




Morire - questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare il gatto
in un appartamento vuoto?
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Qui niente sembra cambiato,
eppure tutto è mutato.
Niente sembra spostato,
eppure tutto è fuori posto.
E la sera la lampada non brilla più. 

Si sentono passi sulle scale,
ma non sono quelli.
Anche la mano che mette il pesce nel piattino
non è quella di prima. 

Qualcosa qui non comincia
alla sua solita ora.
Qualcosa qui non accade
come dovrebbe.
Qui c'era qualcuno, c'era,
e poi d'un tratto è scomparso,
e si ostina a non esserci. 

In ogni armadio si è guardato.
Sui ripiani è corso.
Sotto il tappeto si è controllato.
Si è perfino infranto il divieto
di sparpagliare le carte.
Cos'altro si può fare.
Aspettare e dormire. 

Che provi solo a tornare,
che si faccia vedere.
Imparerà allora
che con un gatto così non si fa.
Gli si andrà incontro
come se proprio non se ne avesse voglia,
pian pianino,
su zampe molto offese.
E all'inizio niente salti né squittii.



giovedì, marzo 12, 2015

Nina Simone: To be free.


Pubblichiamo alcuni estratti di una celebre intervista a Nina Simone realizzata nel 1970. Il video è contenuto nel documentario di Peter Rodis "Nina: An Historical Perspective"




Tutti quanti sono dei morti viventi. Tutti quanti evitano gli altri. Dappertutto, nella maggior parte delle situazioni, la gran parte del tempo. So di essere una di loro, e per me è terribile. Per questo, tutto quello che cerco sempre di fare è lasciare che le persone si aprano, così da poter sentire se stesse ed essere aperte verso gli altri. Questo è quanto. Nient'altro.

Ho sempre pensato che stessi sconvolgendo le persone, ma adesso voglio farlo ancora di più, e voglio farlo di proposito, e voglio farlo in modo più mirato. Voglio scuotere le persone così violentemente in modo che escano da un locale dove mi sono esibita ridotte a pezzi.

Voglio andare a stanare quegli elegantoni con le loro vecchie idee, il loro compiacimento, e farli davvero uscire di testa.
Quando sei calmo e tranquillo e le antenne sono in funzione, capisci quando puoi spingere e quando non puoi. Però nessuno può dirtelo, lo devi sentire. In ogni situazione tra esseri umani. È quello che crea un "groove."

Cosa significa secondo te essere liberi?

Cosa significa essere liberi per me? La stessa cosa che significa per te. Dimmelo tu.

No no, dimmelo tu.

È una sensazione. È una sensazione. Come si può spiegare a qualcuno come ci si sente quando si è innamorati? Come spieghi a qualcuno che non è mai stato innamorato come ci si sente ad essere innamorati? Non riusciresti neanche provandoci. Puoi descrivere le cose, ma non puoi spiegarle. Ma lo riconosci quando succede. Questo è quello che intendo con l'essere liberi. Ci sono state un paio di volte in cui mi sono sentita veramente libera sul palco, ed è tutta un'altra cosa. Davvero, è una cosa completamente diversa! Ti dirò cos'è la liberta per me: niente paura! Dico sul serio, niente paura. Se avessi potuto sentirmi così anche solo metà della mia vita. Niente paura. Un sacco di bambini non hanno paura. È il modo più vicino... è l'unico modo in cui riesco a descriverla. Non si tratta solo di questo, ma è qualcosa che sento molto, molto profondamente. Come un nuovo modo di vedere. Come un nuovo modo di vedere le cose.