L'impossibilità di trovare parole nuove, di poter descrivere l'orrore senza passare per le convenzioni linguistiche che hanno spogliato di significato gli eventi più sanguinosi, rischia di far affogare la tragedia nella quotidiana assuefazione alla violenza. Questo è il primo problema che Joe Sacco riscontra nell'indagine condotta durante la stesura del suo libro. E' possibile sciacquare le parole, donare nuova potenza e significato alla cronaca di uno dei teatri più violenti della storia? Forse si può ancora, magari raccontando con le immagini quello che non sappiamo o non possiamo vedere. I numeri diventano persone, e per un istante viene restituita a queste vite la dignità della loro esistenza. Non sono fumetti, perché già dopo le prime pagine si diventa parte comune degli accadimenti, senza essere mai stuzzicati dal riscontrare artificiose finzioni costruite per impressionare chi sta leggendo. E' giornalismo puro, quello di Sacco. C'è una sintesi necessaria, certo, ma il suo metodo riassume quella lezione mai scontata di ricerca della verità e di confronto attento delle fonti. Un lavoro di ricerca impegnativo. E, in molti punti cruciali, assai diverso dalle versioni ufficiali dei documenti dell'Onu e di quelli israeliani.
Tutto inizia con il viaggio tra le persone, col grande carico di difficoltà che la situazione comporta. La storia non si ferma ai singoli eventi, e quella palestinese è una vicenda dove il ricordo si mescola alle tragedie, dove i nomi si sovrappongono e gli anni si confondono. Se c'è un modo di capire chi fossero e cosa sono diventate queste persone, non si può prescindere dall'indagine del passato. Khan Younis e Rafah, Striscia di Gaza. Agli inizi degli anni '50 questo ritaglio di terra stava vivendo un periodo di forti tensioni. Le condizioni terrificanti a cui erano sottoposti i palestinesi che da pochi anni si erano rifugiati lì dopo il conflitto del '48, avevano portato ad esplosioni di moti violenti sempre più diffusi. I rifugiati sconfinavano spesso nei territori israeliani, soprattutto per furti di beni di prima necessità. L'esercito israeliano, già dal '49, aveva ordine di uccidere gli "infiltrati" e solo tre anni dopo venne posto il divieto di uccidere donne, bambini e tutte le persone che si arrendevano alle milizie. Nel 1956 le pattuglie di confine e gli ordigni posizionati dalle comunità degli avamposti uccisero tra le 3000 e le 5000 persone.
Khan Younis. La città, occupata strategicamente dall'Egitto per un breve periodo di resistenza, venne lasciata in mano alle forze di Israele. L'esercito israeliano portò il terrore direttamente nelle case dei civili. Gli uomini delle famiglie presenti in città vennero radunati e giustiziati sommariamente, con la scusa di una caccia ai fedayyin del tutto priva di logica. File di corpi allineati, crivellati dai proiettili e abbandonati per strada. Le modalità di rastrellamento, a Rafah, ebbero dei connotati spaventosi. Tutti i testimoni interrogati sui fatti di quel giorno ricordano che l'esercito israeliano obbligò gli uomini ad un raduno nel cortile della scuola. La violenza dei militari fu indescrivibile. E tutti, dal più anziano al più giovane, hanno stampato nella memoria l'ingresso nel cortile. Una bastonata sulla testa, a cui seguiva un salto oltre un reticolo spinato posizionato davanti ad un fossato. Chi cadeva veniva ucciso, e chi riusciva a farcela doveva mettersi seduto con le mani sulla testa incrostata di sangue. E doveva restare immobile, pena l'uccisione. Questa versione dei fatti è sempre stata negata da Israele, che in più occasioni ha presentato il rapporto di quegli eventi: la situazione incandescente aveva provocato alcuni incidenti, con perdite contenute e per la maggior parte tra i terroristi. Eppure a Gaza si racconta un'altra storia.
Tante, tantissime facce hanno il loro spazio nel tessere la trama di quelle giornate. Sacco le unisce in un filo comune, e da lì tira fuori la cronaca di una strage eseguita a sangue freddo. Perché, chiedono in molti a Joe Sacco, perché raccontare eventi sepolti nella memoria piuttosto che l'attualità? Perché far luce su una pagina che molti hanno rimosso e non dar spazio al precipitare degli eventi che, inevitabilmente, fanno da contorno alla sua ricerca? Mentre il giornalista sta lavorando al suo progetto, infatti, a Gaza la strage continua. Ma non può fermarsi, deve continuare ad appuntare le sue note ai margini della storia. Molti giovani, figli o nipoti dei testimoni di quei giorni, sono quasi infastiditi da questo atteggiamento. Con le ruspe sempre pronte a distruggere le case e l'animo della popolazione, cosa può offrire una ricerca che si perde nel tempo? C'è un punto fermo, una frase fortissima che ricorre in alcune pagine: "Hanno piantato l'odio nei nostri cuori". Un chiodo, una spina perennemente infilata nel petto. Mentre si sfogliano le pagine in bianco e nero, diventa sempre più forte il significato che questa frase vuole esprimere. E Joe Sacco riesce in quell'intento che analizzava all'inizio. Si può ancora raccontare l'indescrivibile? C'è ancora un senso dietro a parole come "morte","strage","violenza","carneficina"? Sì. Ed è nascosto nel sangue nero che riempie le pagine di questa storia.
Alessio MacFlynn
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