L' Abicí della guerra.



"Un'arma contro la verità." Così Bertolt Brecht definiva l'uso strumentale della fotografia: un'arma nelle mani del capitalismo. Sentendo l'esigenza di ricomporre il linguaggio delle immagini, nel 1938 cominciò a raccogliere le fotografie di guerra pubblicate sui giornali, accompagnandole con una didascalia nuova. I fotoepigrammi di Brecht sono simili a delle poesie, sono la voce che manca ai volti e ai luoghi immortalati nella tragedia dei conflitti. Accostandola alla traccia narrativa che i moderni mezzi tecnologici permettono, sembra di trovarsi di fronte ad un'opera profetica. Il commento a margine che descrive le figure è qualcosa con cui abbiamo a che fare quotidianamente, in cerca di approvazione o pronto a raccogliere la nostra indignazione.



Brecht ritaglia fotografie di Hitler, Göring e Goebbels a teatro, di elmetti abbandonati per terra, di città rase al suolo, di soldati in piedi davanti al cadavere del nemico. Spesso la sua scrittura è una sorta di commento supplementare alla didascalia originale, una voce fuori campo che zittisce il cronista e prova a restituire la sensazione di quell'istante catturato. Ma cosa viene fotografato? Se per Brecht la scelta sembrava smisurata, un vero e proprio shock quantitativo, che costringeva ad una scelta dettata dall'esigenza di lasciare un messaggio permanente, oggi non possiamo quasi azzardarci a formulare un paragone. Produciamo immagini senza sosta, abbiamo scoperto che si può essere protagonisti anche da spettatori e non perdiamo occasione pur di lasciare un visibile segno della nostra esistenza.

Susan Sontag, scrittrice ed attivista americana, nel suo saggio "Davanti al dolore degli altri", riprende una citazione di André Breton: "La bellezza sarà convulsa o non sarà." Una frase che spiega perfettamente il rilancio al dolore che periodicamente trova risalto dentro e fuori gli organi di informazione. Non è solo la televisione a trasmettere incessantemente filmati da questa o quella città distrutta, non sono solo le parole in sovraimpressione che si trascinano sotto al nostro sguardo distratto, a raccontare quante persone hanno perso la vita in questa o quella guerra. Adesso siamo noi a narrare, a documentare, a testimoniare. Ora che abbiamo tutto il potere per farlo, siamo anche in grado di saper utilizzare gli strumenti che abbiamo a disposizione? Loredana Lipperini oggi ha scritto un articolo molto interessante riguardo alla diffusione in questi giorni delle foto dei bambini morti a Gaza:

"E’ informazione, ci viene detto. Io non so rispondere, ma credo che no, non sia l’informazione di cui abbiamo bisogno. Perché le più celebri immagini che documentano il male, quelle che hanno testimoniato dell’orrore dei lager e di tutte le guerre che abbiamo alle nostre spalle e accanto a noi, avevano un contesto."

Si tratta di contesto e si tratta di spettacolarizzazione a tutti i costi, si tratta di capire come sia possibile mantenere in piedi un qualsiasi significato del dolore in una realtà che accatasta e immagazzina documenti, resettando il momento della comprensione. E, soprattutto, si tratta di inserire una parola nel dibattito che puntualmente scompare in casi come questo: rispetto.

Nella prefazione al libro di Brecht, la fotografa Ruth Berlau afferma che saper leggere un'immagine può essere difficile quasi quanto leggere i geroglifici. Brecht ha provato a creare quell'argomentazione che spesso manca a chi non riesce a sviluppare un grado di attenzione che superi la semplice constatazione del fatto riportato. Nel fotoepigramma numero due, ad esempio, vediamo un paio di operai impegnati a sistemare delle enormi lastre di ferro, sovrapposte l'una all'altra, mentre alcuni uomini, in piedi, li osservano.

-Cosa fate fratelli?-  -Un carro di ferro.
-E con quelle lastre qui accanto?
-Proiettili che squarciano corazze di ferro.
-E perché tutto questo, fratelli?
-Per vivere, non altro.

Con queste osservazioni non voglio dire che la fotografia debba essere sempre, necessariamente, accompagnata da un commento o da un'analisi. Un'immagine ha la forza di camminare coi propri piedi, e, se usata in modo opportuno, può essere un perno della memoria. Susan Sontag sul discorso dell'etica della memoria conduce una brillante analisi per spiegare questo strano rapporto, quasi contraddittorio, tra la necessità di documentare e il bisogno, a volte, di saper dimenticare. Ma è alquanto impossibile saper lasciare alle spalle ciò che si vede e si apprende. Perciò, data la responsabilità che ci viene assegnata in quanto parte del processo di diffusione e condivisione delle informazioni, è necessario restituire senso, significato e dignità al nostro modo di farlo. "La compassione forzata fino all'estremo si intorpidisce", scrive Susan Sontag.
Ed è a caro prezzo che siamo e saremo costretti a pagare questa anestesia emozionale.

(Gli estratti di Bertolt Brecht sono tratti da L'Abicí della guerra, Einaudi, 
gli estratti di Susan Sontag da Davanti al dolore degli altri, Mondadori.)


Alessio MacFlynn

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