Dose d'urto: la riscoperta dello stupore.






Una fuga bisogna pianificarla bene. Non si può prendere un bagaglio a caso, riempirlo con qualche paio di mutande e sentirsi pronti. Non basta avere la certezza di poter contare sulle esperienze avute in precedenza o sulla scaltrezza che deriva dalle situazioni prive delle abituali sicurezze. Se si scappa, si deve tenere nel portafogli la foto del proprio inseguitore, almeno un identikit abbozzato o qualche generalità fornita dai testimoni. Soldi da cambiare, qualche biglietto da visita, una tessera della biblioteca, la carta d’identità e nessun indizio che possa farci risalire a questo soggetto ignoto. E quando si tratta di rendersene conto, l’aereo sta per decollare. Viene facile, quando tutto è pronto, chiedersi se in effetti ci sia un motivo per aver paura di guardarsi sempre le spalle. Per quanto resti a galleggiare la domanda, nessuno ha voglia di trascinarla a riva, perché non sembra trovare un’appartenenza concreta nel profondo di quello che siamo abituati a chiamare “io”. L’aereo non parte, inizia ad accumulare ritardo, qualcuno è nervoso e inizia a sbuffare pesantemente.

Sugli aerei Ryanair l’imbarco dei passeggeri è accompagnato dalla briosa Primavera di Vivaldi. Solitamente nessuno ci bada. Una musica da sala d’attesa, da “attenda in linea”, da promozione televisiva delle Terme di Chianciano. A guardare questa fila disordinata viene da immaginare la vetrina dove Mrs Ratched dispensa le medicine ai suoi pazienti in Qualcuno volò sul nido del cuculo. "Medicina prego!". Un motivetto allegro per le persone che camminano, si fermano, inciampano e cercano con gli occhi il posto più idoneo a quelle poche ore di volo. Da qualche parte, in un libro di Paolo Nori che si chiama La meravigliosa utilità del filo a piombo, c’è una riflessione che mi è piaciuta molto. Riguarda il modo di vedere, anzi, di sentire la realtà. La consuetudine crea un involucro, impacchetta persone, situazioni, la nostra stessa percezione. Lo facciamo di continuo, naturalmente, per una sorta di necessità che codifichi automaticamente solo quello che in un determinato momento è il nostro obiettivo. Come per un volo in aereo, dove ci si ricopre di cellophan e si aspetta solo che il carrello si apra e le ruote tocchino terra. Non contano le persone sedute accanto, è quasi urtante ascoltare per l’ennesima volta le norme di sicurezza che le hostess mimano, si prega affinché nessuno faccia partire l’applauso una volta atterrati. Paolo Nori scrive che, per tornare a conoscere, bisogna dimenticare. Che sembra facile, e, in realtà, potrebbe benissimo esserlo. D’altronde può capitare che nella vita uno stia a contare i propri problemi seduto su un aereo, senza mai chiedersi per quale diavolo di miracolo sia  possibile portare tanti culi così in alto nel cielo. Una volta scesi dall’aereo si accalcheranno agli sportelli per il controllo del passaporto, ognuno con una propria fretta da rivendicare. 

Julio Cortázar lo chiamava “il mattone di cristallo”, una massa trasparente e dura che porta a negare le cose che abbiamo accanto, anche quelle a cui teniamo di più, leccate dall’abitudine fino a renderle lisce e innocue. Nel Manuale di Istruzioni che compone le Storie di cronopios e di famas, questa sfida inizia appena girata la maniglia della porta, anzi, appena alzati dal letto, mentre gli occhi controllano con una sorta di compiacimento che niente sia cambiato durante la notte. E così, mentre me ne sto seduto in aereo, inizio a rendermi conto che non so nemmeno perché ho deciso di andarmene. Forse è accaduto proprio per prendere un attimo di tregua dall’abitudine e per cercare di abbandonare qualsiasi tipo di difesa verso il tempo che sembra correre più veloce del solito. Invece il mattone se ne sta lì, mi segue e mi fa cenno di allacciare le cinture, di ripiegare il giornale e chiudere il tavolino. Solo qualche giorno dopo mi torna in mente tutto questo, davanti alla vetrina di un negozio di dischi. Max Richter, un brillante compositore e autore di numerose colonne sonore, ha ricomposto le Quattro Stagioni di Vivaldi. Avevo ascoltato le musiche realizzate per Valzer con Bashir, tra cui spicca una bellissima versione del secondo movimento del Concerto N. 5 di Bach, ma ero un po' scettico riguardo a questa prova. 

Io non so se c’entri, ma in qualche modo sì, sta di fatto che è accaduto qualcosa di incredibile. Mi è sembrato di ascoltare quella musica per la prima volta, come se qualcuno avesse preso a martellate gli spartiti e poi avesse fatto un collage delle ultime note rimaste aggrappate al pentagramma. Scomparse le segreterie telefoniche, scomparsa qualsiasi idea di elitarismo affibbiato alle composizioni classiche, quello che è venuto fuori è forse quello che nelle intenzioni doveva essere il motivo della nascita di una delle composizioni più celebri nella storia della musica: una colonna sonora primitiva, che evoca il ritmo delle stagioni e l’emozione che suscita il passaggio di ognuna. Il risultato è spiazzante. Mi è venuto quasi da immaginare che l’ispirazione abbia bussato alla sua spalla proprio durante un volo Ryanair, quasi come fosse un gesto d’amore per fare pace con un’opera così svilita dall' indifferenza. E in tutta questa digressione mi sembra di poter raccogliere quello che volevo dire all’inizio. Che un po’ ha a che fare con il discorso sulla bellezza e sulla felicità. Sembra di sentire i passi di Cortázar, che corre a prendere il giornale, e che, poggiando i  piedi sui gradini per tornare in camera, si accorge della necessità di scrivere delle istruzioni chiare e dettagliate per poter salire le scale. Convinto che per guardare avanti sia indispensabile, prima di tutto, guardare accanto. 

 "...perché l'arte, secondo me, il punto da cui viene, e quello che produce, ha veramente a che fare con lo stupore, ha la sua radice, io credo, in quel momento che il mondo ti prende di sorpresa..." 
Paolo Nori



Alessio MacFlynn





0 commenti:

Posta un commento

 

Facebook

Archivio

Twitter

Tumblr