A dire la verità, sulla linea di Petuškì nessuno ha paura dei controllori, perché tutti sono senza biglietti. Se qualche rinnegato, per via della ciotola, compra il biglietto, allora è lui, naturalmente, a essere a disagio quando passano i controllori: quando gli si avvicinano per il biglietto non guarda nessuno, né il controllore né il pubblico, come se volesse sprofondare per la vergogna.
In questo romanzo che si chiama Mosca - Petuškì, scritto da Venedikt Erofeev alla fine degli anni sessanta, succedono tante cose alla rovescia. L'alcol ha una consistenza diversa, un peso, e infatti si misura in grammi. Il pianoforte è "fortepiano", se è a coda si chiama "royal". La lingua è tutta una vertigine, ogni accento sembra messo lì per fare lo sgambetto, quella che sembra una erre allo specchio, la lettera "ja", che significa "io", è l'ultima dell'alfabeto.
Mentre leggevo Mosca - Petuškì, ho ripensato a una cosa che mi è capitata di vedere poco tempo fa in stazione, a Bologna.
L'ultimo treno era fermo, a breve sarebbe partito, e un ragazzo stava correndo sul marciapiede. Dietro di lui c'era un controllore che gli diceva di fermarsi, un controllore che poi non era nemmeno su quel treno, ne stava aspettando un altro. Voleva vedere il biglietto, ma il ragazzo aveva paura di non fare in tempo e non si era accorto di essere inseguito. Quando si è fermato sui gradini di ferro del vagone, ha iniziato a rovistare nelle tasche, cacciando fuori scontrini e pezzetti di carta che cadevano come da un albero in autunno. Alla fine ha trovato il biglietto, ce l'aveva, al controllore ha detto, "Solo perché sono nero, altrimenti non me l'avrebbe chiesto. Cosa pensa? Io sono francese, vivo qui da otto anni."
Il controllore ha detto che non era per quello, il biglietto lo avrebbe chiesto a chiunque, in stazione bisogna avere sempre il biglietto a portata di mano, altrimenti non ci si può stare.
Io il biglietto non ce l'avevo, ero seduto, aspettavo qualcuno. A me non ha chiesto nulla.
Il primo amore o l'ultima compassione, che differenza c'è? Dio, morendo sulla croce, ci ha imposto la compassione, la derisione non ce l'ha imposta. La compassione e l'amore per il mondo sono una cosa unica.
Molti anni fa, nella carrozza di un treno che partiva da Firenze, mi ricordo, c'era un grande odore di birra e sigarette. L'uomo che la occupava diceva di aver sorpreso la moglie con un altro, diceva che il fatto era avvenuto in camera da letto dove dormiva la loro bimba piccola. Nel corso delle ore si alzava e faceva delle telefonate, non gli interessava che qualcuno potesse sentirlo urlare o piangere. Nello scompartimento si era fermato il signore che portava il carrello con le bottigliette e i tramezzini. Gli avrebbe offerto anche qualcosa, però gli erano rimaste solo delle cioccolate e birra non ne aveva proprio. Nello zaino mi era rimasto ancora un panino. Allora gliel'ho dato e lui mi ha guardato e mi ha ringraziato in silenzio, sarebbe dovuto tornare in Sicilia quella notte, non mangiava dal giorno prima e a casa non voleva rimetterci piede mai più.
Bisogna rispettare, lo ripeto, le tenebre dell'anima altrui...
Delle carrozze di questi treni è rimasta la prospettiva vuota dei corridoi, dei passeggeri le mezzelune delle loro teste, convincere la ragione a non lasciarsi logorare da un corpo che fa quello che gli pare è l'unica cosa che mi accompagna, ripensare ai treni riesco solo da fermo, leggendo Erofeev e gettando uno sguardo alle stazioni che non sono capitoli, ma dei lunghi puntini di sospensione o dei colpi di tosse.
A me va tutto a periodi, la mia vita in un certo senso è tutta un periodo...
Il guaio sta tutto nella misura sbagliata delle cose. Il tempo andrebbe contato da lontano, le scadenze e le destinazioni non dovrebbero essere divise per trenta, per sette, dodici o sessanta. A questo punto, credo, mi sembra molto più sensato pesare il tempo coi chilometri, facendo finta che prima o poi arriverò a Petuškì in orario, dove mi aspetterà per mangiare una ciotola di panna coi lamponi.
Sul canale YouTube del blog è disponibile il documentario su Venedikt Erofeev (Венедикт Ерофеев). La traduzione di Mosca - Petuškì (Москва - Петушки) è di Paolo Nori (Ed. Quodlibet). Regia di Pawel Pawlikowski (1991)
La traduzione dei sottotitoli riprende quella inglese che compare nel documentario originale, mentre tutti gli estratti, che nel documentario sono affidati alla voce di un narratore inglese, sono letti da Venedikt Erofeev.
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