Del libero arbitrio, della colpa e della pena: il libero arbitrio

Un antico proverbio, rintracciabile in differenti culture africane, insegna che c’è bisogno di un intero villaggio per crescere un bambino. Oltre al chiaro riferimento ai sistemi di mutuo soccorso presenti in molte comunità africane, penso che il proverbio in questione affermi anche una profonda verità, ossia che ciò che il bimbo diventerà è principalmente, se non totalmente, il prodotto delle esperienze che vivrà interagendo con l’ambiente in cui crescerà. Quel "se non totalmente" fa, ai fini della discussione, tutta la differenza, dato che mette in dubbio l’esistenza di quel residuo di indipendenza dal contesto grazie al quale, generalmente, ci si riconosce causa delle proprie azioni. Il presente articolo, primo di una serie di tre, si propone di analizzare sia il rapporto tra l’individuo e il contesto, sia la questione dell’esistenza di quel residuo di indipendenza, mentre i successivi due saranno dedicati alle conseguenze che tale analisi ha sulla concezione di colpa e di pena, due aspetti fondamentali per definire le caratteristiche del buon vivere civile e sociale.

Sarà capitato a molti di interrogarsi sulle motivazioni di determinati comportamenti, soprattutto se particolarmente odiosi e deprecabili, ed ultimamente, causa la compresenza di tipi umani molto differenti nella città in cui vivo, mi sono trovato sempre più spesso a cercare di capire che cosa guidi le azioni degli individui. La necessità di approfondire la mia conoscenza del tema mi ha portato a leggere, vedere ed ascoltare, diverso materiale relativo al confronto tra Sam Harris, neuroscienziato, e Daniel Dennett, filosofo e logico, sull’esistenza del libero arbitrio, scaturito dalla pubblicazione, ad opera del primo, di un libro dal titolo Free Will(2012).
Ora, l’ampiezza e l’importanza del tema implicano che un semplice dibattito tra due intellettuali, per quanto preparati, difficilmente possa offrire una quantità esaustiva di materiale, ma credo comunque che possa essere sufficiente ad iniziare al tema chi, come il sottoscritto, è un neofita e non nutre ambizioni professionali. Vorrei dunque sottolineare che le mie idee sull’argomento devono molto a tale dibattito, e soprattutto alle posizioni di Harris, che ho personalmente trovato più convincenti, e invito caldamente chi fosse interessato a consultare l’abbondante materiale presente in rete.

Il primo grande ostacolo che si incontra nell’approcciare il problema è la definizione stessa di libero arbitrio. Mi limiterò, nell’ambito del presente articolo, a riferirmi a quella che credo essere la più comune tra coloro che non studiano la materia, ossia l’idea che l’individuo sia causa ultima delle proprie azioni. Personalmente, non credo che questo tipo di libero arbitrio esista, ma tengo a precisare, a scanso di equivoci, che questo non implica il cedere all’idea di predestinazione e ad altre derive metafisiche. Significa, invece, affermare che l’individuo non ha il controllo, e quindi la responsabilità, di molte, se non tutte (e qui è il nodo da sciogliere), le azioni che compie. Tale affermazione sembra a prima vista paradossale, dato che l’autocoscienza è un tratto fondamentale della nostra percezione della realtà, e che la responsabilità individuale è un pilastro della struttura sociale e del sistema giudiziario. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, finisce per essere molto più ragionevole di quanto si pensi.

La negazione del libero arbitrio va approcciata da due prospettive differenti: sociologica e neuroscientifica. La prima riguarda l’idea che l’uomo sia faber fortunae suae, mentre la seconda riguarda la vera e propria capacità volitiva dell’individuo. La prospettiva sociologica, a mio avviso di più facile comprensione e meno controversa, muove dalla constatazione che ciò che un individuo è e fa in uno specifico momento è in realtà fortemente determinato dalle esperienze pregresse, e che, ad un’attenta analisi retrospettiva, tali esperienze devono molto di più al caso che alla volontà.
È piuttosto evidente, ad esempio, come il patrimonio genetico o l’ambiente familiare abbiano un effetto determinante su come un individuo si svilupperà, su come percepirà la realtà, sulle decisioni che prenderà, e su una miriade di altri aspetti caratteristici, e che, al netto di considerazioni metafisiche, si possa affermare che l’unica forza ad agire nella determinazione di queste condizioni sia il caso. Se si pensa poi a come questo ragionamento si estenda ad un incredibile numero di altri aspetti, l’idea che sia l’individuo a determinare il corso della propria vita diventa sempre meno credibile. Non mi riferisco solamente a questioni lampanti come quelle legate alla ricchezza ereditata o alla relazione tra disuguaglianza e crimini violenti. Mi riferisco anche a minuzie comportamentali che caratterizzano il quotidiano, inclusa la stessa propensione al miglioramento personale, che, a mio avviso, non emergono autonomamente, ma fanno parte di quella catena di concause, spesso (o sempre?) aleatorie, che è la vita.
La prospettiva neuroscientifica, invece, permette di analizzare uno degli atti che più caratterizzano la percezione di sé: l’azione cosciente e volontaria.
Quando si sceglie di compiere un’azione, anche, e forse soprattutto, la più semplice, la sensazione che si ha è di totale controllo. Tuttavia, sviluppi in campo neuroscientifico hanno cominciato a mettere in dubbio la reale volontarietà delle azioni, anche quando si ha un’esperienza cosciente.
In un articolo del 1999, gli psicologi Dan Wegner e Thalia Wheatley fecero una proposta rivoluzionaria, suggerendo che l’esperienza di volere il compimento di un’azione è spesso niente più che un’inferenza causale a posteriori che non rispecchia la realtà dei fatti.
Uno studio del 2008, utilizzando il neuroimaging funzionale, ha riscontrato che il risultato del processo decisionale è codificato nell’attività della corteccia prefrontale e parietale fino a dieci secondi prima che avvenga l’esperienza cosciente della scelta, e che questo potrebbe indicare che il reale processo decisionale funzioni in maniera molto differente da come lo si percepisce. Inoltre, uno studio del 2016 afferma, anche se si è ancora molto lontani dal comprendere i meccanismi neurologici sottesi, che l’esperienza della scelta sia in molti casi influenzata da una cosiddettaillusione postdittiva”, che porta le persone a sovrastimare il ruolo della coscienza nelle loro scelte.
Quale che sia l’esatta realtà scientifica, la neuroscienza del libero arbitrio sembra mettere in seria discussione il senso comune. Inoltre, un’attenta analisi del grado di determinismo e casualità che caratterizza la vita aiuta a ripensare la capacità dell’individuo di influenzare in maniera autonoma la propria esistenza.
Viene da sé, quindi, che gli aspetti del vivere civile e sociale che sono strettamente legati al concetto di libero arbitrio, quali la responsabilità individuale, la colpa e il merito, debbano conseguentemente essere rimessi in discussione.

Nei prossimi due articoli verranno dunque approcciate le conseguenze sociali e civili di un ripensamento del libero arbitrio.

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