Sarà capitato a molti di interrogarsi sulle motivazioni di
determinati comportamenti,
soprattutto se particolarmente odiosi e deprecabili, ed ultimamente,
causa la compresenza di tipi umani molto
differenti nella città in cui vivo, mi
sono trovato sempre più spesso a cercare di capire che cosa guidi
le azioni degli individui. La necessità di approfondire la mia
conoscenza del tema mi ha portato a leggere, vedere ed ascoltare,
diverso materiale relativo al confronto tra Sam Harris,
neuroscienziato, e Daniel Dennett, filosofo e logico, sull’esistenza
del libero arbitrio, scaturito dalla
pubblicazione, ad opera del primo, di un libro
dal titolo “Free
Will” (2012).
Ora,
l’ampiezza e l’importanza del tema implicano che un semplice
dibattito tra due intellettuali, per quanto preparati, difficilmente
possa offrire una quantità esaustiva di materiale, ma credo comunque
che possa
essere
sufficiente ad
iniziare al tema chi, come il sottoscritto, è un neofita e non nutre
ambizioni professionali. Vorrei dunque sottolineare che le mie idee
sull’argomento devono molto a tale
dibattito,
e soprattutto alle posizioni di Harris, che ho personalmente trovato
più convincenti, e
invito caldamente chi fosse interessato a consultare l’abbondante
materiale presente in rete.
Il
primo grande ostacolo che si incontra nell’approcciare
il problema è la definizione stessa di libero arbitrio. Mi limiterò,
nell’ambito del presente articolo, a riferirmi a quella che credo
essere la
più comune tra coloro che non studiano la materia, ossia l’idea
che l’individuo sia
causa ultima delle
proprie azioni.
Personalmente,
non credo che questo tipo di libero arbitrio esista, ma tengo
a precisare, a scanso di equivoci, che questo non implica il cedere
all’idea
di
predestinazione e ad altre derive metafisiche.
Significa,
invece,
affermare che l’individuo non ha il controllo, e quindi la
responsabilità, di molte, se non tutte (e qui è il nodo da
sciogliere), le azioni che compie. Tale affermazione sembra a prima
vista paradossale, dato
che
l’autocoscienza è un tratto fondamentale della nostra
percezione
della realtà, e
che
la
responsabilità individuale è un pilastro della struttura sociale e
del sistema giudiziario.
Tuttavia, ad
uno sguardo più attento, finisce per essere molto più ragionevole
di quanto si pensi.
La
negazione del libero arbitrio va approcciata da due prospettive
differenti: sociologica
e neuroscientifica.
La
prima riguarda l’idea che l’uomo sia faber
fortunae suae, mentre
la
seconda riguarda la vera e propria capacità volitiva
dell’individuo.
La prospettiva sociologica,
a mio avviso di più facile comprensione e meno controversa, muove
dalla constatazione che ciò
che un individuo è e fa in uno specifico momento
è in realtà fortemente
determinato
dalle esperienze pregresse, e che, ad un’attenta analisi
retrospettiva,
tali esperienze devono molto di più al caso che alla volontà.
È
piuttosto evidente, ad esempio, come
il patrimonio genetico o l’ambiente familiare
abbiano
un effetto determinante su come un individuo si svilupperà, su
come percepirà la realtà,
sulle decisioni che prenderà, e su una miriade di altri aspetti
caratteristici, e
che,
al
netto di considerazioni metafisiche, si possa affermare che l’unica
forza ad agire nella determinazione di queste condizioni sia
il caso. Se si pensa poi a come questo ragionamento si estenda ad un
incredibile numero di altri aspetti, l’idea che sia l’individuo a determinare il corso della propria
vita diventa sempre meno credibile. Non mi riferisco solamente a questioni lampanti come quelle legate alla ricchezza ereditata o alla relazione tra disuguaglianza e crimini violenti. Mi riferisco anche a minuzie comportamentali che caratterizzano il quotidiano, inclusa la stessa propensione al miglioramento personale, che, a mio avviso, non emergono autonomamente, ma fanno parte di quella catena di concause, spesso (o sempre?) aleatorie, che è la vita.
La
prospettiva neuroscientifica,
invece, permette di analizzare uno degli atti che più caratterizzano
la percezione di sé: l’azione cosciente e volontaria.
Quando
si sceglie di compiere un’azione, anche,
e forse
soprattutto, la più semplice, la sensazione che
si ha è di totale controllo. Tuttavia, sviluppi in campo
neuroscientifico hanno cominciato a mettere in dubbio la
reale
volontarietà
delle azioni,
anche
quando si ha un’esperienza cosciente.
In
un articolo
del 1999, gli psicologi Dan
Wegner e
Thalia Wheatley fecero
una proposta rivoluzionaria, suggerendo che l’esperienza di volere il compimento di un’azione è spesso niente più che
un’inferenza causale a posteriori che non rispecchia la realtà dei
fatti.
Uno
studio
del
2008, utilizzando
il neuroimaging funzionale, ha riscontrato che il risultato del
processo decisionale è codificato nell’attività della corteccia
prefrontale e parietale fino
a dieci secondi prima che avvenga l’esperienza cosciente della
scelta, e che questo potrebbe indicare che il reale processo decisionale funzioni in maniera molto differente da come lo si percepisce. Inoltre, uno studio
del 2016
afferma,
anche se si è ancora molto lontani dal comprendere i
meccanismi neurologici sottesi, che l’esperienza della scelta sia
in molti casi influenzata da una
cosiddetta
“illusione
postdittiva”,
che porta le persone a sovrastimare il ruolo della
coscienza nelle loro scelte.
Quale
che sia l’esatta realtà scientifica, la neuroscienza del libero
arbitrio sembra mettere in seria discussione il senso comune.
Inoltre,
un’attenta analisi del grado di determinismo e casualità che
caratterizza la vita aiuta a ripensare la capacità dell’individuo
di influenzare in maniera autonoma la propria esistenza.
Viene
da sé, quindi,
che gli aspetti del vivere civile e sociale che sono strettamente
legati al concetto di libero arbitrio, quali la responsabilità
individuale, la colpa e il merito, debbano
conseguentemente essere
rimessi
in discussione.
Nei
prossimi due articoli
verranno dunque approcciate le conseguenze sociali e civili di un
ripensamento del libero arbitrio.
0 commenti:
Posta un commento