Ricordo un Capodanno trascorso nascosto in corridoio, da solo, al buio, con una bottiglia di spumante Gancia trovata dentro l'armadio dei piatti che non usiamo. Stavo lì in corridoio perché avevo paura che dalla finestra dei vicini partisse un razzo, un fuoco d'artificio, e spaccasse la finestra. Dove lo vai a trovare uno che te la mette a posto, una finestra, il primo di gennaio? Devi rimediare col nastro e il cartone, col rischio di tagliarti un dito e finire al pronto soccorso ad aspettare che ti chiamino e nell'attesa parlare con qualcuno che si è fatto male coi fuochi d’artificio, magari proprio un tizio che ha sparato un razzo e accidentalmente ha colpito una finestra. Però ecco, forse non era questa la mia paura. Non per tutte queste conseguenze, il vetro, il pronto soccorso… Avevo paura di quella gente lì, che faceva festa in balcone a pochi metri dalla mia finestra e sparava petardi contro le case. Uno di loro, uno sobrio, avrebbe chiamato ad alta voce temendo che scoppiasse un incendio, avrebbero suonato al campanello senza avere risposta, telefonato ai vigili con tutto il casino dei botti e, forse, qualcuno sarebbe entrato in casa forzando la serratura per spegnere l'incendio. E avrebbe trovato me, da solo in corridoio, con lo spumante Gancia vecchio di non si sa quanto.
Il primo dell'anno lo zio Marino era sempre seduto a capotavola, aveva la responsabilità di assaggiare il primo tortellino del pranzo. Doveva dire se era giusto di sale. “Noi ci mettiamo la noce moscata,” diceva la zia, “a casa vostra non si usa”. Di lavoro lo zio Marino faceva l’addetto tecnico ai servizi di riparazione caldaie. Di questo suo mestiere io avevo un’immagine molto nitida, che risaliva a un’estate in cui in casa nostra c’era stato un problema con le condutture e avevamo chiesto allo zio Marino di venire a vedere. Accucciato sotto al lavandino apriva e richiudeva, girava manopole e lasciava cadere gli attrezzi, c’era solo il suono di quelle brugole che tintinnavano e il suo fiato che si appesantiva per lo sforzo e per il caldo. Una volta riparato quello che c’era da riparare, lo zio era stato congedato come se quel lavoro lì, dello stare chinato sotto al lavandino, fosse stato un incidente di percorso, come se avessimo scomodato un primario di chirurgia per un raffreddore del cane. Eppure lo zio non sembrava dar peso a questa cerimonia di imbarazzi e ringraziamenti, anzi, rivolgendosi a me aveva detto che se fosse capitato nuovamente quel problema sarei stato in grado di pensarci io, dato che per tutto il tempo l’avevo assistito. Una responsabilità che periodicamente mi ha costretto, di nascosto, a controllare che non ci fossero perdite in cucina.
A Capodanno succedeva che lo zio Marino si assentasse per vedere il concerto, quel gran concerto che davano alla televisione ogni primo dell'anno. Si accomodava nello studio dove tenevano i libri dei nonni, sistemandosi con le pantofole sul tavolo. Io lo seguivo facendo finta di passare davanti alla porta per caso o per andare in bagno, lui con la mano batteva sui cuscini per lasciarmi intendere di entrare e chiudere.
Lo zio aveva due telecomandi sul tavolino, uno per il registratore e uno per il volume del televisore. Il concerto iniziava con quella musica pomposa e le stelle gialle su fondo blu che si disponevano in cerchio. “È il Te Deum di Charpentier," diceva lo zio, "trasmettono questa sigla quando sono in diretta su tutte le televisioni d’Europa”. Poi la commentatrice iniziava a snocciolare la lunga biografia del compositore, si soffermava su aspetti tecnici dell'orchestra continuando a raccontare quelle tappe con un tono di voce che suggeriva l’ovvietà di certe informazioni, sicura che ogni ascoltatore avrebbe colto le sue parole. Io cercavo di non mostrarmi impreparato. Se a sentire il nome del maestro che avrebbe diretto il concerto lo zio commentava con un profondo “Bah!” calcato nel petto, gli angoli della mia bocca tendevano all’ingiù per rafforzare il suo “Bah!”. Oppure, quando in qualche rarissimo caso lo sentivo esclamare “Un gigante!”, automaticamente le mie sopracciglia si alzavano verso la cima della fronte, imitando la meraviglia di chi si trova perfettamente d’accordo con l’esclamazione “Un gigante!”. Lui non mi guardava, ma sapevo che era importante che lo facessi, che la mia approvazione seguisse le sue parole.
Poi lo zio si metteva curvo sul tavolino, con uno scatto afferrava entrambi i telecomandi alzando il volume al massimo con una mano e con l'altra registrava i secondi di silenzio prima che il direttore abbassasse la bacchetta e l'orchestra attaccasse a suonare. Era una gara, perché lo zio si definiva un intenditore coltissimo di musica classica e opera. Sosteneva di non aver mai voluto frequentare l'accademia perché al conservatorio la disciplina è troppo rigida e gli orchestrali, quando non suonano in un’orchestra e sono costretti a dare prova prova del proprio talento, magari una sera che tornano a casa dalle prove e hanno degli ospiti a sorpresa che chiedono di sentire qualcosa, quegli orchestrali non sono poi così bravi quando suonano da soli. “Troppo rigide le accademie, poca fantasia a briglia sciolta” (non avevo idea di cosa fosse una briglia sciolta, per tanti anni ho creduto che lo zio non riuscisse a pronunciare bene la parola “biglia”. Una biglia sciolta, libera dalle altre, evasa dal sacchetto). Dopo che lo zio aveva registrato quei secondi continuava a guardare il concerto, dimenticandosi del resto della famiglia che continuava a soffiare sul brodo in attesa del suo arrivo a tavola.
Mio zio Marino è morto già tanti anni fa, è morto quando ero fuori all'estero e non ho potuto andare al funerale, mi è dispiaciuto non averlo salutato. Quando due mesi dopo sono andato a casa sua per fare le condoglianze a mio cugino, sono tornato in quello studio. Ho cercato la cassetta per un quarto d'ora nell’armadio dei dischi, poi ho pensato che poteva essere rimasta infilata nel registratore. L'ho mandata indietro col tasto del rewind e l'ho guardata. In quel momento è entrato mio cugino, che di questa roba non sapeva niente e gli ho detto "Sono i silenzi dello zio." La cassetta durava pochissimo, c’erano forse una ventina di concerti registrati, uno per ogni anno. “In che anno avrà iniziato?” mi ha chiesto mio cugino. Nello studio si sentiva un colpo di tosse che proveniva dal teatro austriaco, qualche poltroncina che scricchiolava, piccolissimi suoni di legno e respiri trattenuti. L’abbiamo riguardata altre due volte.
Adesso quella cassetta ce l'ho qui a casa, è il mio ricordo dello zio. Mi piacerebbe invitare qualcuno per vedere quella cassetta il primo dell'anno, ma si annoierebbe senza dubbio, visto che non suonano mai. Quelle facce concentrate giusto un attimo prima dell'esibizione e poi niente, un'altra e poi un'altra, un silenzio da grande sala d’aspetto, una di quelle dove ci si ritrova per sbaglio l'ultimo dell'anno, da soli, con un vetro infilato nel dito.
1 commenti:
Esisteva un rituale quasi analogo a casa mia. In più c'era la scommessa su chi avrebbe diretto la Wiener Philharmoniker per l'anno in corso; puntualmente non ci azzeccavamo ma all'epoca non c'era Wikipedia per spulciare chi fosse il direttore in carica. Eravamo melomani alla buona. Durante la Radetzky March, che coincideva con dolce e caffè, mio nonno scomodava Karajan come fosse l'asso di briscola: nessuno poteva più argomentare.
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