Oggi a Istanbul splende
il sole. Tutto procede come sempre: i pescatori sul ponte del corno d'oro, i
kebabbari affaccendati infilzano la carne nello spiedo, i commessi puliscono le
vetrine dei loro negozi, i senza tetto dormono su un suolo ormai privato delle
sue mattonelle e i venditori di strada all’angolo attendono sperando che sia rivoluzione: non hanno ancora venduto tutti gli elmetti e le mascherine
anti-gas. Tutto sembra essersi
normalizzato, questa città sorprende sempre per la velocità con cui tutto
accade.
Solo pochi giorni fa: barricate,
nuvole di fumo, slogan assordanti che rimbombano tra i palazzi, pugni in alto,
grida, e poi soldatini in assetto antisommossa che sparano lacrimogeni e spray
urticanti ad altezza uomo, proiettili di gomma, mezzi blindati di ogni taglia
che scagliano la loro potenza sul corpo dei
manifestanti armati solo di rabbia. È la rabbia di chi vede i propri
diritti calpestati, di chi subisce l’arroganza di un governo autoritario e
della sua feroce polizia sproporzionatamente violenta.
Tutto comincia con un
piccolissimo parco nel cuore di Taksim e la volontà di pochi ambientalisti di
salvarlo dall’inesorabile “rinnovo urbano”. Uno spazio verde, un luogo
d’incontro, un bene comune che rischia di dover fare spazio alla logica del
profitto e arrendersi alla trasformazione di tutto il quartiere in un immenso
centro commerciale, una sorta di parco attrazioni per i turisti che affollano
sempre di più le vie del centro.
Peccato che quel quartiere abbia un’identità difficile da cancellare. Piazza Taksim, situata di fronte al parco, è il luogo simbolo del dissenso politico. Da sempre, gruppi politici di svariate tendenze, usano quello spazio per dare visibilità alle proprie rivendicazioni. Nel 1977, in quella stessa piazza, circa 40 militanti di sinistra sono stati uccisi mentre festeggiavano il primo maggio. Distruggere Gezi Park e piazza Taksim vuol dire anche cercare di eliminare l’emblema delle lotte politiche della storia repubblicana.
Ecco perché una causa
ecologista è riuscita a mobilitare tutta la città e, qualche giorno dopo, tutta
la nazione. I manifestanti chiedono di poter essere parte attiva nei processi
decisionali che riguardano lo spazio che abitano e si rifiutano di abbassare ancora una volta la testa di fronte
al tentativo del governo di sradicare, insieme agli alberi, la storia e l’identità dello spazio urbano.
Molti hanno visto nelle
manifestazioni di queste settimane uno scontro tra le forze laiche e islamiste
del paese. Si è parlato tanto delle proposte per limitare la vendita di
alcolici e delle pillole del giorno dopo e di come queste abbiano mobilitato
molti giovani a scendere in strada.
Questa però è solo una delle dimensioni della protesta. L’immagine dei Musulmani Anticapitalisti che organizzano la preghiera del venerdì sotto la pioggia tra le tende di Gezi Park, con i militanti dell’estrema sinistra al loro fianco che reggono gli ombrelli, potrebbe completamente ribaltare questa prospettiva.
Prima dell’ultimo e (per
il momento) definitivo sgombero, il parco Gezi era diventato un laboratorio di
cittadinanza attiva che univa gruppi con orientamenti estremamente diversi che
avevano finalmente trovato uno spazio per sfogare tutto il dissenso accumulato
negli ultimi 11 anni di governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo
(AKP), guidato dal carismatico Recep Tayıp Erdoğan, conservatore, islamista
moderato nella retorica e neoliberista nella pratica. Lui, paladino della
democrazia durante le rivolte arabe, viene messo in discussione da un’ondata di
protesta che non accenna a fermarsi nonostante i toni intimidatori, la
repressione brutale, gli innumerevoli arresti sommari e la costante demonizzazione dei manifestanti
attraverso i media main stream.
Di certo non è la prima
volta che una città turca si trasforma in terreno di guerrilla urbana, i curdi
ne avrebbero tante di storie simili, vivono questa repressione da sempre.
Tuttavia il centro delle loro proteste è Dıyarbakır, città curda lontana dai
riflettori e dal turismo di massa nota alla cronaca per tali eventi e
considerata da molti turchi un “covo di terroristi”. Sicuramente molti turchi
che stanno vivendo in prima persona gli eventi di questi giorni,
riconsidereranno la legittimità con cui la politica, in base ai propri
interessi, attacca l’etichetta di terrorista a questo o quel gruppo. Oggi anche
loro se la vedono appiccicare da Erdoğan
e dal prefetto di Istanbul.
I protagonisti di questi giorni sono militanti della sinistra radicale,
ataturkisti, ultras delle tre più importanti squadre di calcio della città,
membri di associazioni della società civile, medici, avvocati, architetti e
gente comune che per la prima volta –armata di elmetto di plastica, occhialini
da piscina e mascherina da chirurgo – si trova coinvolta negli scontri con la
polizia.
Ieri, al ventunesimo giorno di resistenza, con
piazza Taksim e Gezi Park completamente militarizzati, è continuata la
protesta silenziosa iniziata dall’artista Erdem Gunduz. La
resistenza dell' “uomo che sta in piedi”si è propagata anche in tante altre
città. Inoltre tutti i gruppi che fanno
parte della piattaforma di sostegno a Taksim e che hanno animato fino a oggi le
manifestazioni, si sono riuniti in
assemblea in dieci parchi sparsi per tutta la città, con la stessa
energia e entusiasmo dei primi giorni,
perché, così come promettono gli slogan:“questo è solo
l’inizio, la lotta continua!”.
Caterina McSakin
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