La campagna elettorale
del presidente Obama procede con diverse complicazioni, e non basta il sorpasso prospettato dai sondaggi nei confronti del rivale Mitt Romney a placare i timori. Gli eventi di questi giorni rischiano di far vacillare alcune certezze che garantivano la presenza alla Casa Bianca per i prossimi quattro anni. L’uccisione dell’ambasciatore
americano a Bengasi, Christopher Stevens, di tre uomini del suo staff e di dieci libici
addetti alla sicurezza, ha portato alla luce la difficoltà che gli
Stati Uniti stanno vivendo nelle missioni all’estero. La sensazione è che il governo americano non riesca ad uscire da un pantano internazionale molto insidioso, ben lontano da qualsiasi prospettiva di pacificazione. La tensione che attraversa il Medio Oriente, senza contare la permanenza in Iraq e Afghanistan,
ha creato molte difficoltà al governo democratico. Ultimo episodio è quello
che vede l’attacco diretto di Netanyahu allo stesso Obama, in seguito ad un
incontro saltato a Washington. Queste le dichiarazioni del primo ministro
israeliano:
"The
world tells Israel:
Wait. There's still time. And I say: Wait for what? Wait until when? Those in
the international community who refuse to put red lines before Iran don't have a moral right to place a red
light before Israel.".
Israele è un alleato tanto prezioso quanto difficile da gestire. Le conseguenze di una possibile escalation in Medio Oriente
non sono prevedibili e negli ultimi tempi Washington ha avuto non pochi
problemi a mantenere stabili gli equilibri con Gerusalemme. Mai come adesso, però, il supporto dell’elettorato
ebraico diventa necessario per un vantaggio nei confronti dell’avversario, data
la rilevanza strategica che detiene in alcuni degli stati chiave come Florida e
Pennysilvania. Obama ha contattato Netanyahu per calmare le
acque, ribadendo l’intenzione di prevenire la proliferazione nucleare del
regime di Teheran, ma è difficile dire per quanto tempo sarà possibile arginare la minaccia di un conflitto.
Romney, già nella convention repubblicana di Tampa , aveva parlato di speranze deluse e di divisioni nella società americana, imputandole ai quattro anni di presidenza democratica. Dopo i fatti di Bengasi ha preso la palla al balzo per muovere diverse accuse all’amministrazione Obama:
“It’s
disgraceful that the Obama administration’s first response was not to condemn
attacks on our diplomatic
missions, but to sympathize with those who waged the attacks.”
Sarà una nuova elezione all’insegna della paura? Il ruolo che questo sentimento ha avuto in numerose votazioni negli Stati
Uniti è stato spesso cruciale. Se la minaccia terroristica ha segnato le presidenziali del 2004, questa volta il terrore è focalizzato sulla perdita di considerazione che ha avuto
la politica di deterrenza statunitense, unita alla sensazione complessiva che l'America non riesca ad imporsi più come una volta nelle delicate trattative internazionali. Non è difficile immaginare che da adesso la campagna elettorale dell’ex governatore del Massachusetts subirà una sferzata verso un’ideale riconquista del predominio statunitense nel mondo, cercando di arrivare a convincere gli indecisi e puntando a screditare sempre di più Obama per il suo operato. Viene da chiedersi se il timore di una crisi internazionale potrà influenzare rapidamente le scelte degli elettori, o se invece saranno i programmi di sviluppo e rilancio dell'occupazione interna a richiamare gli americani alle urne.
Alessio MacFlynn
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