Per scongiurare la paura, sin da bambino, ho immaginato questo momento in ogni minimo particolare. È stata per me una tale ossessione, che quando alla fine è successo... ho provato sollievo. Stranamente, è stato come se mi fossi detto: "Ci siamo. È successo. Un orrore in meno da vivere è sempre meglio che niente." Ma in queste innumerevoli fantasie morbose, in queste messe in scena, in tutta questa preparazione rituale c'era una cosa che non potevo sapere... niente ti prepara al persistere delle cose abominevoli.
Manu Larcenet, Lo scontro quotidiano
(Coconino Press, traduzione di Francesca Scala)
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Sull'ultima tavola del fumetto c'è scritto 5 settembre 2007. Per una volta fare caso alla data e tornare davvero indietro a un 5 settembre 2007. Mi ricordo, degli anni che avevo in quel momento e delle cose che stavano per arrivare, cercate e afferrate con una semplicità che adesso quasi mi imbarazza. Solo un attimo prima che tutto si abbattesse e finisse, perché pare che accada sempre così. Non c'è mai tempo per farsi trovare pronti.
Per strada, di fronte a un negozio d'antiquariato con un poster di Amarcord, a pochi passi da un ospedale di Roma, un camioncino vendeva della bellissima frutta e le prime fave della stagione (era aprile). Le ho comprate, volevo portarle a mio padre che stava sdraiato in un letto di quell'ospedale. Ci piaceva fare questa cosa, quando iniziava la stagione, di riempire una bustona da tenere in macchina coi finestrini aperti e mangiare le fave e non dire niente, mentre la strada saliva e scendeva senza curve, la sua mano che affondava tranquilla accanto alla mia a intervalli casuali, per aprirle e sbucciarle. Quando le ho prese, la volontà di ripetere quel gesto non coincideva con la logica di una vita che si stava esaurendo. Io volevo stare seduto in quella stanza, in quell'ospedale di Roma con la primavera già calda fuori dai doppi vetri, e confondere l'odore d'acciaio disinfettato con un pezzo dei nostri ricordi, distrarre l'inevitabile con quel regalo per lui, che dopo pochi giorni non avrei visto mai più.
Ho provato tantissime volte a raccontare da solo quei momenti, mai il prima e sempre il dopo. Ogni volta con l'impressione di spedirmi una cartolina da chissà dove. Di leggibile c'era solo qualche riga, il resto era una fotografia dai colori falsi. Ci si stacca completamente da sé, ecco cosa succede, e questo sono riuscito a capirlo in tanti modi diversi. Ma non l'ho mai detto, non mi sono mai arreso al dolore, perché parlare pensavo potesse peggiorare le cose. In fondo, era una cosa che doveva succedere, che succede a tutti e chi sono io per lamentare un'assenza, pensavo. Solo ora riesco a riflettere sulla legittimità di un dolore. Per anni, tanti anni, ho impedito di offrire al mio silenzio una spiegazione. Una spiegazione non richiesta è un riflesso ordinario, l'esercizio della motivazione per i passi affrontati e le scelte irrisolte. Abbiamo bisogno di parole per spiegare noi stessi, servono a noi e anche agli altri, specialmente quando le uniche parole che siamo in grado di offrire sono cristallizzate in una didascalia. E invece questa premura del silenzio, il minor male possibile.
Lo scontro quotidiano. Combattere, non vincere mai, arrivare alla fine della giornata stremati per aver pareggiato con successo, celare il senso di sconfitta e di soddisfazione allo stesso modo, per la superstizione naturale generata da qualcosa che ci appartiene fino a strozzarci, a cui però non sappiamo dare un nome. Questa composizione di riflessi ordinari circonda l'imprevedibilità della reazione fisica imminente, covata dalla finzione dei gesti e da un carico insostenibile.
Non esplode mai all'esterno, si riversa dentro e spacca qualsiasi impalcatura temporanea, se c'era un tentativo in allestimento o un obiettivo a pochi passi, niente, crolla giù. Pensare al proprio corpo come uno scantinato allagato di fili scoperti, di tubi rotti, di perdite e topi. Bisognerebbe chiamare un tecnico, un idraulico, un elettricista, qualcuno che sa come fare ad aggiustare. Qualsiasi momento, si sa solo questo, che potrebbe trovarci in qualsiasi momento, indifesi. E con la mente si corre, con affanno, a tamponare l'eventualità. C'è solo un modo per farlo, e il cervello in questo senso funziona in modo più violento di qualsiasi escavatore meccanico: quello che fa è estrarre i peggiori pensieri, depositandoli a caso da qualche parte in attesa che qualcuno venga a riprenderseli.
Il 5 settembre 2007. Se avessi letto quel libro nel periodo in cui è stato scritto, non avrei capito. Mi avrebbero consegnato i miei anni condensati nelle pagine di un fumetto, io non avrei capito. Non avrei sentito, forse è giusto dire così, non avrei sentito. Non sarei scattato in piedi ogni quattro pagine, non avrei avuto i brividi, non avrei stretto i denti e le lacrime. Non avrei sentito.
È già dicembre, esattamente un anno da quando è iniziata la tortura degli attacchi di panico. Rimpianto delle febbri dell'infanzia, degli orecchioni e del morbillo, malattie che avevano una durata segnata, potevano solo lasciarti più o meno tempo a letto, con la promessa che saresti cresciuto in quel sudore, "la febbre fa diventare grandi". Incontrare qualcuno che ti dice che sono esperienze che ti fanno crescere prima, annuire per non vomitare litri di rabbia. Incontrare, anni dopo, chi ti dice che poi passa, che è tutta una cosa nel cervello, lasciarsi ferire. Uno scontro quotidiano con qualcosa che apparentemente è puro effetto e niente causa. Non poter andare dove andavi tutti i giorni, per paura di cadere svenuto. Viaggiare in treno seduto tra i vagoni. Scappare dal cinema, da un negozio, dalla casa di un amico. Giustificarti con mezzo sorriso e poi crollare di nascosto. Il corpo che non collabora, non riuscire a riconoscere le sue intenzioni. Insistere, stare peggio, chiudersi, non uscire, perché la minaccia è sempre in agguato. Sentire crescere dentro di sé la rassegnazione, nascondendola a chi può solo essere presente. "Mi dica dov'è che le fa male. Se tocco qui? E qui?" La memoria del prima com'era, di quando questo non c'era, inquinata da una nuova incapacità.
Un appunto di una giornata: - È come avere una busta di sangue legata al collo. Il battito è confuso, ti sorprende con delle fitte, delle scariche, quando oscilla troppo. Ricordo questo gioco di stringere il pugno e portarlo al petto, "Il cuore è grande come un pugno stretto," dicevano così. Ora l'urto è disperso in questo sacco di plastica trasparente che ondeggia insieme a te, ovunque insieme a te. -
C'è voluto uno sforzo innaturale. Mesi di tentativi per fare un passo. Andare dove si ha nuovamente paura, come scriveva Hrabal. Ora convivo con un compromesso accettabile, che non mi lascia tranquillo, non del tutto, non ancora, eppure mi capita di avere lunghi momenti senza il pensiero di questa minaccia. Tentare, ricominciare, riprendere il passo sul fronte di questa lotta con i pezzi cuciti male di una storia. Lasciando che torni a scorrere l'ossigeno. Ora non aspetto più. Ogni giorno ho il mio scontro, una dose dal formato variabile che paragono a un vaccino antico, un infuso mitologico fatto di paura e fiato mozzato.
Manu Larcenet, Lo scontro quotidiano. 5 settembre 2007.
Chissà quanto altro servirà. La poesia ripaga di tutto, almeno questo. Adesso lo so.
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