Ian McKellen racconta la nascita del Tommaso Moro e recita il discorso scritto da William Shakespeare.
L'appello di William Shakespeare alla tolleranza verso i migranti nell'opera Tommaso Moro.
di Andrew Dickson
Tra la quarantina di opere scritte interamente, o quasi, da Shakespeare, esiste un intrigante mistero: un manoscritto intitolato "The Booke of Sir Thomas Moore" (booke in questo contesto vuol dire "copione di scena"). Attualmente custodito negli archivi della British Library, il documento è un copione che si attesta tra il tardo sedicesimo e gli inizi del diciassettesimo secolo, a vederlo sembra quasi una bozza ed è pieno di revisioni e cambiamenti. L’autore principale doveva essere il poeta e drammaturgo Anthony Munday (1560-1633), oggi poco conosciuto, ma il testo sembra contenere i manoscritti di altri quattro colleghi drammaturghi, inclusa una figura misteriosa conosciuta inizialmente come “Mano D.” Nel 1871 gli studiosi proposero un’identità per la Mano D: William Shakespeare. Se così fosse, il manoscritto del Tommaso Moro conterrebbe qualcosa dal valore inestimabile: l’unico esempio della scrittura di Shakespeare in un manoscritto letterario.
Il soggetto dell’opera è l’ascesa e la caduta di Tommaso Moro, avvocato sotto i Tudor e personaggio eclettico, che fu condannato a morte per essersi rifiutato di riconoscere Enrico VIII come capo supremo della chiesa d’Inghilterra. Dati i rigidi standard politici dell'Inghilterra elisabettiana, la storia di Moro rappresentava un argomento scottante: gli eventi che il dramma descrive avevano avuto luogo solo sessant'anni prima, e Moro era un cattolico che morì per i suoi ideali. Il cattolicesimo venne ufficialmente vietato sotto Elisabetta I, e gli aderenti dell'antica religione furono costretti a praticarla in segreto; rappresentare un ritratto solidale di un martire papista che sfidò il suo monarca, come Tommaso Moro, era veramente rischioso.
E, cosa ancora più rischioso, l’opera si soffermava sui disordini xenofobi che lacerarono Londra nel 1517.
Questi scontri avevano inquietanti somiglianze con i disordini avvenuti nel 1590 e nei primi del '600, quando i drammaturghi stavano lavorando al testo; infuriati da quelli che ai loro occhi dovevano essere livelli allarmanti di immigrazione dal continente europeo, i rivoltosi avevano sconvolto Londra chiedendo che venissero espulsi o che gli venissero tagliate le gole. Oltre alla scrittura di Munday, di Shakespeare e degli altri drammaturghi (Henry Chettle, Thomas Dekker e Thomas Heywood), il manoscritto porta anche i commenti e le revisioni esasperate di Edmund Tilney, censore del teatro elisabettiano, che aveva il potere di impedire rappresentazioni di opere considerate incendiarie. Il Tommaso Moro sembra essere stato uno di quei drammi: stando a quello che gli storici sono riusciti a provare, fu vietato dall’essere presentato al pubblico.
Cosa svela il Tommaso Moro su Shakespeare?
Molto più della sua scrittura, decisamente fitta. Il momento più controverso del copione è durante la cosiddetta scena dell’insurrezione, dove londinesi xenofobi riversati nelle strade della città sbraitano affinché gli immigrati vengano cacciati via dall’Inghilterra. Nonostante si tenda a pensare che i drammi elisabettiani fossero concepiti in uno splendido isolamento, non era insolito che gli scrittori lavorassero insieme, contribuendo a scrivere sezioni o discorsi a seconda della necessità. A un certo punto nella stesura del Tommaso Moro sembra che a Shakespeare fosse stato commissionato di scrivere il punto più emozionante dell’opera, in cui l’eroico Moro - che a questo punto nel dramma è diventato una sorta di sceriffo di Londra - implora la folla di accettare e accogliere i richiedenti asilo che vivono tra loro.
Immaginate allora di vedere gli stranieri derelitti, coi bambini in spalla, e i poveri bagagli arrancare verso i porti e le coste in cerca di trasporto, e che voi vi asseggiate come Re dei vostri desideri - l’autorità messa a tacere dal vostro vociare alterato - e ve ne possiate stare tutti tronfi nella gorgiera della vostra presunzione.
Moro rivolge alla folla le stesse accuse che vengono manifestate: se loro fossero dei rifugiati, dove andrebbero? Quali paesi li ospiterebbero?
Vi piacerebbe allora trovare una nazione d’indole così barbara che, in un’esplosione di odio e di violenza, non vi conceda un posto sulla terra, affili i suoi detestabili coltelli contro le vostre gole.
Piena di vergogna e contrizione, la folla si ritira.
Il Tommaso Moro a quell’epoca dovette apparire troppo controverso da portare sul palco, ma la forza che emana a teatro si manifesta in modo chiaro. Grazie al discorso che Shakespeare fa pronunciare a Moro, lo sceriffo che si è fatto da solo, la rivolta viene placata richiamando i migliori istinti della folla, e con un immaginario che è spaventosamente vivido: gli stranieri derelitti che trasportano i loro bambini e i loro averi, che arrivano a fatica sulle coste per poi essere rispediti a casa - se di casa ne hanno ancora una.
Questa forza dirompente che fa fermare il tempo dello spettacolo, richiama alla mente l’agonizzante appello alla tolleranza di Shylock, l’usuraio ebreo ne Il mercante di Venezia (“Ma un ebreo, non ha occhi?) e torna su una questione ripetutamente toccata da quel dramma e da altri, come Otello e Misura per misura: come rappresentare la correttezza e l’accettazione? E quali sono i delicati accordi sociali che puntellano il multiculturalismo? Come spesso accade con Shakespeare, non abbiamo modo di sapere se i sentimenti di Moro fossero gli stessi dello scrittore teatrale, ma la sua causa per la tolleranza è portata avanti con una forza piena di passione.
Nonostante sia così poco conosciuta, e quasi mai portata a teatro, la scena rimane potente ancora oggi, e non è difficile ricondurla alla crisi dei rifugiati del ventunesimo secolo - sia che si tratti dell’esodo apparentemente infinito dei richiedenti asilo dalla terribile guerra civile siriana o del flusso di migranti che si dirigono in Europa da zone remote come Afghanistan e Eritrea. Con l’Unione Europea divisa sul da farsi, queste problematiche non verranno risolte. La migrazione, come Shakespeare fa capire in questa notevole scena, non è un fenomeno nuovo: la domanda importante è come il resto di noi reagisca ad essa.
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