Quando Marchionne sostenne che le performance della Fiat sarebbero state di gran lunga migliori se non avesse avuto la "zavorra italiana", lo sdegno fu molto e di variopinta provenienza.
Tuttavia, a mio sommesso parere, gran parte delle critiche erano mal focalizzate. Rimarcavano semplicemente la necessità che Fiat dimostrasse la sua riconoscenza nei confronti dello Stato italiano, date le molte sovvenzioni ricevute nel tempo (non era l'unica azienda a ricevere sovvenzioni: abbiamo inventato noi il "capitalismo assistenziale"), e lasciavano cadere nel vuoto quelle che erano le motivazioni più importanti di tale affermazione: deficienze strutturali e sistemiche del Bel Paese
Ad avvalorare questa tesi ci ha pensato "Il Sole 24 Ore" di oggi.
Nel suo articolo "Grandi navi, un primato da difendere", Gian Maria Gros-Pietro ha dato una sua lettura del piano di taglio esuberi previsto da Fincantieri.
Dopo la premessa di come il settore navale in toto non stia affrontando un periodo idilliaco, ha riportato una propria esperienza visiva in un cantiere. Esperienza, questa, che gli ha permesso di notare due realtà antitetiche fuse tra loro: il Made in Italy della qualità si mescolava al Made in Italy dell' inefficienza di processo.
A suo dire (con il quale concordo in pieno), tale problema, che si affianca a quello già annoso del calo della domanda, sta portando la Fincantieri, da sempre leader nelle produzioni navali turistiche e militari, a cedere il passo a realtà estere.
Perdiamo pezzi.
A fronte di una domanda debole, si ricorre a tagli di personale non pienamente giustificati dall'impossibilità di abbattimento dei costi attraverso migliorie di processo e di gestione.
Credo che tali migliorie, dato anche il premium prize (disponibilità ad acquistare a prezzi più elevati per ottenere maggiore qualità) da sempre riconosciuto dagli acquirenti a Fincantieri, permetterebbero alla stessa di ottenere quote di mercato.
Sia ben chiaro: sono perfettamente cosciente di come la flessibilità del lavoro (che, in questo caso, però, verrebbe spezzato) sia una necessità, ma non è possibile che venga sempre considerata come la panacea per tutti i mali.
Siamo realmente sicuri, però, che tutte le colpe possano essere addossate all'azienda?
Sempre nello stesso articolo, l'autore spiega come non sia il caso che si ricorra anche in questo caso a sovvenzioni, poiché queste non avrebbero altro effetto se non quello di distogliere nuovamente lo sguardo dalle problematiche.
Si rischia di attaccare il paziente morente al respiratore artificiale senza preoccuparsi delle motivazioni della sua insufficienza respiratoria.
In questo caso, come in moltissimi altri, le motivazioni risiedono principalmente nell' "inospitalità industriale" italiana.
Secondo il Global competitivness forum (WEF-2010/2011) , nella classifica di attrattività industriale, l'Italia ricopre il 48esimo posto, sovrastata da paesi che, storicamente, non hanno mai brillato per potenza economica. Tra le voci che maggiormente influiscono in negativo su tale piazzamento troviamo: costo dell'energia; costo ed inefficienza dei trasporti; regime fiscale eccessivamente asfissiante; sistema burocratico eufemisticamente "viscoso"; assenteismo; incertezza normativa;etc. etc. etc.
In questo quadro, non è certo cosa facile fare impresa.
Tornando all'affermazione di Marchionne, quindi, vorrei dire ai fautori della logica "non si sputa nel piatto in cui si è mangiato", seppur in accordo con le loro argomentazioni, che sarebbe il caso di preoccuparsi del perché nel medesimo piatto continui ad esserci sempre meno cibo.
Massimo McMutton
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2 commenti:
forse arrivo in ritardo a leggere l'attualità dell'articolo. Ma le sue considerazioni, e soprattutto conclusioni non appaiono affatto datate. Essendo poi il cuore del momento presente. L'Italia risulta un Paese "inospitale" alle attività industriali perché da molto tempo ha scelto, anche se nessuno ce lo ha mai detto, di non voler essere un Paese per industrie. Cioè per il lavoro. E i risultati si vedono. Mentre intanto qui da noi è intanto scomparsa la media grande industria. L'Italia credo abbia scelto nei suoi gruppi dirigenti, e non è un partito soltanto che nessuno lo ha mai rimesso in discussione, di vivere senza il Lavoro.
E questo è stato reso possibile da Leggi elettorali che consegnano il Parlamento a minoranze. Cosa anche questa che nessuno ha mai cambiato, infatti, anche alternandosi.
Forse così si spiega anche l'enormità di una nazione che tiene in piedi una Tassa sull'occupazione aziendale senza arrossire di vergogna dinanzi a oltre tre milioni di disoccupati.
Ma il nodo è divenuto un nodo . Non si scioglie, si taglia. O salta il Banco. E questa appare la posta del momento presente.
mario staffaroni
Eh si... Anch'io sono convinto che il nostro paese, con la scusa di vantarsi delle sue eccellenze distrettuali e della sua imprenditoria medio-piccola, faccia semplicemente il gioco di arroccarsi su uno suo "status quo" insoddisfacente, spacciandolo per peculiarità, senza stare a preoccuparsi di quello che sarebbe potuto essere e potrebbe essere (peraltro ho appena discusso una tesi di laurea che si muoveva in questo solco). Peraltro, la scarsa dimensione delle nostre imprese le rende molto poco resilienti al contesto globalizzato. Infatti, molte di queste piccole realtà vanno avanti solo grazie ad acquisizioni di grandi gruppi esteri. Uno per tutti (mi viene in mente solo questo,ora): l'acquisizione di Bulgari da parte di Louis Vuitton.
L'unica soluzione è di cercare di non cedere il passo nei comparti industriali "labour intensive" e creare un ambiente che possa incubare nuove realtà industriali (non è certo un mistero come le start up in Italia abbiano vita dura) in settori all'avanguardia, in cui le quote di mercato vanno conquistate ma non erose (vedi Small Business Act).
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