Newroz = Nuovo Giorno





È un nuovo giorno per chi ieri ha festeggiato  nelle strade e nelle piazze di Diyarbakir, la città più importante del Kurdistan turco. I cori e le danze festose tra fiumi di gente ricoperta di verde giallo e rosso quest’anno non hanno accolto solo il Capodanno curdo (e persiano). Dopo trent'anni di guerriglia contro lo stato, più di 40.000 vittime, interi villaggi rasi al suolo, famiglie disgregate tra rifugiati in Europa, combattenti nelle montagne e migranti nelle grandi città della Turchia; dopo un lungo inverno che ha visto oltre 500 prigionieri politici curdi mantenere uno sciopero della fame per ben 68 giorni per richiedere l’avvio dei processi di pace e la fine dell’isolamento nel carcere di massima sicurezza di Imrali per il loro Leader, Abdullah Öcalan, ieri è arrivata la storica notizia del cessate il fuoco. Sirri Surreya Onder e Pervin Buldan, due parlamentari del BDP [Barış ve Demokrasi Partisi], leggono l’annuncio di Öcalan durante le celebrazioni:


 “La nostra lotta è andata contro ogni tipo di pressione, violenza ed oppressione… Adesso si sta aprendo una porta su un processo democratico dopo un periodo di lotta armata. Le armi dovrebbero cadere nel silenzio e la politica dovrebbe venire al primo piano. È stata raggiunta la fase in cui le nostre forze armate dovranno ritirarsi dietro i confini… Non è la fine, è l’inizio di una nuova era”.

La posta in gioco del cessate il fuoco è un ampio riconoscimento costituzionale  dell’identità curda e il diritto di esprimersi nella propria lingua; diritti di cui beneficeranno i circa 20 milioni di curdi in Turchia. Circa, poiché la popolazione curda non è mai stata censita. Secondo l’attuale legge turca di derivazione ottomana, solo i gruppi religiosi possono essere riconosciuti come minoranze. Questo, aggiunto a decenni di politiche di assimilazione nei confronti dei curdi (e non solo), rende  impossibile sapere quali siano i numeri esatti della popolazione curda. 

Per chi ricorda gli anni d’esordio del PKK, quando l’obiettivo della lotta era la fondazione di uno stato curdo indipendente, la vittoria potrebbe apparire magra, ma si tratta invece di un grosso passo in avanti. Il PKK aveva infatti abbandonato da tempo la richiesta di uno Stato indipendente in cambio di maggiori diritti e autonomia della regione del sud-est. Inoltre, per la prima volta, assistiamo alle negoziazioni tra lo Stato e il nemico pubblico numero uno, il capo dell’organizzazione che ha a lungo minacciato la “sacra” unità del territorio nazionale turco e che si trova in carcere da quattordici anni. Questo di per sé costituisce una novità: accettando il PKK come interlocutore della causa, lo Stato gli conferisce per la prima volta una legittimità, un riconoscimento.

Sicuramente è presto per cantare vittoria, la storia repubblicana della Turchia ha insegnato ai curdi, così come alle altre minoranze, a  tenere alte le difese e di diffidare dalle cosiddette “aperture alla questione curda” che fino ad ora sono state solo di facciata, pretestuose e poco sincere. 
Ecco perché, come il primo ministro turco Erdoğan lamentava, non c’erano bandiere turche nelle strade di Diyarbakir.



Caterina McSakin

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