John Fante.

Da qualche anno ho il vizio di riproporre una vecchia esortazione alla lettura, tramandatami da un saggio e raro amico. E' figlia di quelle serate da bar,quelle fredde però. A volte può capitare in certe serate che una Molinari e una vecchia storiella intrisa di leggenda ti si infilino sotto il cappotto per tirarti un po' su. E capita che da queste serate salti fuori, così all'improvviso, un consiglio per un libro, un film o una canzone. Se poi questo consiglio non è imposto, ma lasciato lì ad ardere sino alla strada barcollante del ritorno, allora funziona. E la maggior parte delle volte ti cambia la vita. "Lascia perdere tutto quello che stai leggendo!" Esordiva così, facendo piazza pulita di tutto il resto. "Domani alzati presto, fatti la barba e metti una camicia pulita. Poi vai in libreria e senza esitare chiedi quel libro. Già che ci sei fattelo impacchettare, così quando torni a casa sei sicuro di esserti fatto un regalo." L'autore si chiama John, di cognome Fante e il libro, anzi i libri,sono "Aspetta primavera, Bandini" e "La confraternita dell'uva".
La scrittura di John Fante è così forte, che dietro ogni parola si sente il suono della macchina da scrivere. Si percepisce la scarica di parole che tesse il profilo dei suoi alter-ego letterari, ossia Arturo Bandini e Henry Molise. John Fante, di sangue abruzzese. Lo scrittore che meglio ha saputo raccontare una generazione che si confrontava con le proprie radici e la volontà di distaccarsene. Una generazione che parlava americano fuori casa e italiano dentro. In un personale percorso narrativo, ho voluto vedere in questi due romanzi  l’alfa e l’omega della sua movimentata vita familiare. Nonostante appartengano a due filoni diversi, essi completano quella che è tutta la vita ed il rapporto dello scrittore con i  genitori e le sue radici. Come ha scritto lui stesso, in "Aspetta primavera, Bandini" c'è tutto quello che poi sarebbe stato ripreso in seguito, condensato in un'opera prima sbalorditiva. Cosa dire di Arturo Bandini, di suo padre Svevo, della madre che sgrana rosari e prepara la stufa per le gelide notti del Colorado? La sensazione impressionante è che John Fante abbia esattamente colto la peculiare attitudine del carattere italiano nei suoi scritti. La letterattura americana, abituata ad uno stile veloce e spezzato, si è rivelata la melodia perfetta per una vita fatta di tante parole e tanti gesti messi assieme. Ciò che unisce il piccolo Arturo Bandini all' Henry Molise adulto della “Confraternita” è il difficile rapporto con il padre e l'eterno conflitto che lo lega a lui: un elastico di affetti e rancori che si inseguono per tutta la vita. Un primo particolare che balza all'occhio è il grande divario temporale che separa queste due opere, come se davvero la vita andasse di pari passo alla letteratura. "Aspetta Primavera" uscì nel 1938 e "La confraternita" nel 1977. Eppure la grande maestria di Fante non si è persa col tempo, ma è divenuta, forse incosapevolmente, una roccia solida, uno di quei muri che suo padre indicava chiedendo: "Che cosa non vedi?" Vivisezionare l'opera di Fante non rende merito alla sua grazia compositiva e alla scelta degli ingredienti che mescola come fa sua madre nella cucina di vapori e crocifissi. Quello che vorrei descrivere è una sensazione, quella che più mi ha colpito e mi ha fatto innamorare. E la sensazione è che Fante ci abbia preso in pieno. Quel carattere dell'emigrante italiano, il suo orgoglio, le sue contraddizioni e quel calore primitivo a cui tornare sempre e sempre per poi scappare. Una fucìna calda di affetti dove il perdono viene consumato in casa, tra le mura domestiche, così come i litigi e le lacrime. Svevo e Nick Molise  sono figure di padri riconoscibili, veri e genuini. Il primo è un fascio di nervi scattanti ed operativi, il secondo più incline alla tenerezza ma ancora pieno di rabbia e voglia di riscatto. Non distribuisce carezze ed ogni tanto molla qualche ceffone. Ripone poche aspettative sui figli, se non una lieve speranza che lo possano seguire in cantiere. Ha la barba ispida e pungente e un odore amaro di sigaro biascicato e vino. Ma in fondo a questa crosta, a questa corazza salata, c'è una storia di ostacoli, di coraggio e rimpianti. C'è la storia di uomini che la terra, la patria lontana, ha vomitato fuori, a miglia e miglia di distanza per cercare fortuna e stabilità. Sono uomini e padri che escono fuori la sera per stare coi compari, ma che senza le loro donne non sanno dove sbattere il grugno. Le donne, già. Per John Fante la moglie Joyce sarà la grande compagna di una vita, unita a lui come il pane abbrustolito col pomodoro. E, come per lei, lo scrittore parla con grande affetto di sua madre. In questi due romanzi è descritta come una compagna paziente, una moglie ed una madre carica d'affetto per i figli scalmanati che accudisce e rincuora. Suo marito la rimprovera spesso per questa educazione molle, colpevolizzandola di averli viziati ed educati senza infondere il rispetto.  Ma se non ci fosse lei a perdonarlo per i suoi peccati, pregando e ripulendolo dalle sbronze, sarebbe solo un vecchio triste e solo. Lei è il cuscino buono del letto, quello che profuma.

Come se fosse una specie di Salgari, Fante ci descrive l'italianità senza la cornice del Bel Paese e allo stesso tempo ci racconta la sua America, quella di tanti che come lui hanno cercato l'oro sepolto nella libertà dei grandi spazi. Tra “Aspetta primavera” e “La confraternita”, troviamo un ragazzo e poi un uomo che debbono sudare più degli altri, lavarsi da quel passato che non gli appartiene e faticare per un posto nella società contando solo sulle proprie forze. Fante ci ha  prepotentemente trascinati in quel grande calderone di ricordi e affetti che irrimediabilmente ha preso volti e voci di persone delle nostre vite, delle nostre cucine. Quelle dove i dolori della vita si curano con le patate novelle e il cosciotto d’agnello.

Alessio MacFlynn




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